FRANCESCO LANZA: LA CASTITÀ POETICA E MORALE DI UN SICILIANO DA NON DIMENTICARE

          Valguarnera vide la nascita e la morte (1897 – 1933) di Francesco Lanza, l’autore di quei Mimi siciliani alla cui originalità tonale ed artistica si fa riferimento in ogni discorso critico che tenta di consolidare (e a buon diritto!) la fortuna ancora vacillante dello scrittore. Certamente i Mimi per la loro vitalità e per il loro naturalismo non poco hanno contribuito a dare del Lanza un’immagine spiritualmente vivace e spregiudicata, tanto che il Bargellini, nel 1950, gli riconosceva la categoria di un “colorismo picaresco”, e lo Sciascia, nel 1968, condensava un suo giudizio dentro gli attributi “beffardo, irriverente, ironico, libertino”.

          Ma Ardengo Soffici, a un mese dalla morte dello scrittore, scriveva: “non mi nascondo che in un momento come questo, in cui il mondo letterario è infestato di artifici di ogni sorta, di ciarlatanismi ridicoli, di influenze straniere prive di senso, e di pessimo gusto, non sarà cosa tanto facile chiarire il pregio di un’opera tutta castità, semplice eleganza, verità e naturalezza, come quella del nostro Lanza” (da Il Tevere, 6 febbraio 1933).

          In verità, dentro la cornice della castità, della eleganza e della naturalezza è da considerare tutta l’opera del Lanza, dai Mimi agli Itinerari di Sicilia, un arco ideale che inscrive anche due singolari opere dalle quali è utile spigolare per il nostro discorso: l’Almanacco per il popolo siciliano(nato, nel 1923, come libro di lettura e per commissione di Giuseppe Lombardo Radice) e il Lunario sicilianop (periodico iniziato a stampare a Enna nel 1927). Quest’ultimo venne salutato dalla Fiera letterariap(6 gennaio 1928) come “un giornale letterario” la cui pretesa più che giustificata era quella di “farsi leggere oltre i confini di una regione”.

          In entrambe le opere ricorre il motivo qualificante dell’arte lanziana: favoleggiare. Favoleggiare con una forza sempre nuova, con un abbandono completo in un mondo senza fremiti e senza contorsioni, nell’intimo della casa dell’uomo “ove a sera serenamente si sveglia parlando dei giorni e delle opere”; e nel pieno di un’attività rurale, colta a mezz’aria tra fatica e godimento: “la raccolta delle olive è l’ultima gioia della campagna. Chi bacchia si scalda le mani, e le raccoglitrici di olive intanto cantano, o ascoltano i vecchi storie d’amore, di santi, di cavalleria”. (Almanacco – dicembre).

          Miti di una società patriarcale che il Lanza ricerca e ricerca, in una magia dolcissima che riesce a stemperare tutte le ansie e tutte le contraddizioni dell’uomo moderno.

          Il nostro fu cantore di spighe e di ulivi, di pascoli verdi e di monti selvosi, e assume nel suo cielo soltanto i cultori di questi tipo di natura, i “massari dalle braccia forzute e prodigiose come quelle degli arcangeli”. Né vicenda rurale che perda mai sacertà e decoro contro il villano recrimini: egli è lasciato intatto nella sua originaria condizione di signore della terra, di interprete del linguaggio della natura. Lungi da ogni problematica sociale che ne fiacchi l’entusiasmo, egli appare “con la falce al fianco, ché quella è la sua spada”; e la sua schiena “gli duole dal lungo stare curvato, egli non ha neppure il tempo di pensarci, che c’è da preparare l’aia” (Almanacco – giugno).

          Quanto lontano è tale mondo dalla tragica condizione delle creature verghiate che hanno il volto di Nedda e di quelle pirandelliane che hanno il volto di Ciaula! Gli è che nel Lanza c’è il cantore del sole della Sicilia, negli altri, sino a Tomasi di Lampedusa e sino allo Sciascia, troviamo i cantori della sofferenza del sole della Sicilia.

          In effetti un delicato realismo georgico ci riporta alla suggestiva trama poetica che vibra nelle più belle pagine dell’Almanacco: “nelle ore di afa, che tutte le cose si assonnano e l’aria come un mare di fuoco, le cicale stridono e le stoppie saltando in aria scoppiettano”. E ancora: “Quando le stelle sono lucenti e asciutte, e formicolano come se si tenessero in una mano, vuol dire buon tempo. Quando le stelle sono appannate come se il Signore vi fiatasse di sopra, e sono nel cielo come tra porta e porta nascoste, allora il tempo cangia e dice acqua”.

          Il Lanza è nella varia umanità dei suoi rustici di cui coglie la ieratica serietà e l’atteggiamento talora “beffardo, irriverente, ironico” ricorrente neiMimi, senza per questo si possa dire che tutta la sua arte tragga linfa da uno solo di tali due modi di sentire, ma conserva, comunque, una particolarissima continuità di linguaggio, lirico, essenziale, che sa cogliere il grottesco movimento scenico delle creature semplici o che scarnifica il sentimento nelle rievocazioni autobiografiche.

          Il Lunario ci riporta al gusto di uno stile sanguigno, di umore casalingo e georgico, pieno di abbandoni: In novembre “poiché il tempo sembra sospeso, rimasto ad attendere alla porta senza fretta alcuna, si può giocare lungamente a briscola… come nelle vecchie litografie che scoloriscono alle pareti dell’osteria”.

          E come in vecchie litografie che sfumano tra l’elegiaco e il realistico, ammiriamo stupefatti, scorci di rappresentazioni poetiche che il delicato Lanza ha saputo ricavare d’improvviso sul tessuto didascalico: “versato a sera nella lampada, l’olio diviene candida luce. Brilla su una testina bionda, china sul libro di letture, sul volto soave di una mamma”.

          La natura lo riporta al suo intatto mondo di eterno fanciullo, lo inebria, lo esalta, per cui anche l’asperità dell’inverno suggerisce l’abbrivio del canto che non sai se definire preghiera: “la neve prepari ai nostri risvegli gli immacolati paesaggi da pastorale, candidi stupori da presepe”.

 

A cinquant’anni dalla morte di Francesco Lanza,

“Rassegna della provincia di Trapani”, n° 254, 1983