GIOCHI VALGUARNERESI

(…) «Sugn Saro e s’avit tjmp v cunt u iuwch ra Chiavuzza».

Il coro non si fece attendere: «u tjmp è picca e u ch far è assai, nac’t nàcat?  a bozza».

«A chiavuzza che ricalcava il famoso gioco della settimana, era un divertimento di abilità praticato da ragazzini e ragazzine, spesso in competizione fra di loro; u iuwch si svolgeva su di una griglia rettangolare, disegnata con un gessetto per terra o, in alternativa, incisa sulla terra battuta, nella quale venivano inseriti otto numeri, dall’[1] all’[8]. Il gioco non aveva limiti di partecipanti, bastava munirsi di una piccola pietra piatta, a chiavuzza e sperare che l’avversario sbagliasse la sua esibizione per potergli subentrare. No quartjr r san Giusepp venivano giocate due varianti dello stesso gioco, però con regole e griglie diverse».

«Macàr no ma quartjr s iuwcava na du maner dvers» aggiunse Nino, zittito immediatamente da tutti.

chiavuzza 2«La prima variante del gioco che, per comodità chiamerò tipo A, si giocava, come accennato precedentemente, dopo aver disegnato la griglia e inseriti gli otto numeri in sequenza, per chiarire e farvi ricordare meglio ve la traccio per terra (griglia di tipo A); «stu professur è prparat assai», sussurrò sghignazzando Sebastiano, fulminato dallo sguardo di Saro, che riprese alzando leggermente il tono di voce: «Subito dopo, mediante la conta, veniva stabilito l’ordine di partenza. Il primo giocatore estratto, posizionato sulla linea bassa del lato corto del rettangolo, lanciava la sua chiavuzza  (piccola pietra piatta o frammento di piastrella) nella casella di sinistra, contrassegnata dal numero [1]».

La descrizione di Saro, fu seguita dall’azione sul rettangolo di gioco, precedentemente inciso; diede un attimo di respiro e poi riprese: «Ovviamente bisognava fare attenzione a non far cadere la piccola pietra sopra una delle righe che delimitavano le caselle dei numeri, s no àvara lassar u puwst a nautr. Se il tiro era andato a buon fine, u iuwcatur doveva eseguire, abbastanza velocemente, una serie di evoluzioni all’interno della griglia numerata, senza mai pestare nessuna riga. E ora cu quattr moss v trunz».

«Bum, rvau u maestr ri ioca» fu la risposta inequivocabile degli amici. Incassato il “complimento” Saro, con un sorriso divertito, riprese, descrivendo le evoluzioni della sua estemporanea esibizione: «La prima mossa era quella di saltare dentro le due caselle, posizionando il piede sinistro nella casella [1] e quello destro nella casella [2]; salto nella casella [3] con il piede destro tenendo l’altro alzato, senza mai perdere l’equilibrio; salto nella casella [4] con il piede sinistro e quello destro nella casella [5]».

Poi per un attimo Saro si fermò e con una punta di soddisfazione fissò il gruppo stranamente silenzioso; un battito di mani e riprese le sue evoluzioni dicendo: «Salto nella casella [6] con il piede destro, rimanendo in equilibrio con l’altro piede alzato; salto nella casella [7] con il piede sinistro e quello destro nella casella [8]». Arrivato in fondo alla griglia, Saro con una repentina giravolta di 180°, posizionò il piede destro sulla casella [7] e quello sinistro nella casella [8]. Questa improvvisa azione, che la gran parte degli amici ricordava, però generò un coro di battute, la più benevola fu: “Duwp stu gran saut, o r’tuwrn n l’am carr’car nguwdd». Saro incurante di tutto, con un sorriso di sfida, rifece, con sfrontata abilità, il percorso di ritorno; e mentre raccoglieva a chiavuzza dalla casella [1] aggiunse: “Vist ch sugn ancora viv m faz nautr gir», e con stile “antico” lanciò a chiavuzza nella casella [2]. Saro precisò che il gioco continuava sempre uguale; il giocatore doveva cercare di rifare il percorso allo stesso modo, evitando sempre di toccare, con uno dei piedi, le righe della griglia. Ovviamente le difficoltà aumentavano, progressivamente, quando si doveva centrare, col il lancio ra chiavuzza, le caselle più lontane. Rifatto ancora un giro, scandito dagli oh!..oh!…oh! falsamente meravigliati del gruppo, Saro con garbo ed enfasi concluse: «Come accennato all’inizio un errore metteva fine, momentaneamente, alla partita, che sarebbe ripresa dalla casella successiva a quella superata nella propria precedente esibizione, quando tutti gli avversari avevano già effettuato il proprio turno, vinceva chi aveva commesso meno penalità. La seconda variante del gioco – quella di tipo B – invece desidero che sia illustrata da Carmelo, chiavuzza 3un esperto in questo campo». Quest’ultimo, sorpreso dall’annuncio, avrebbe preferito declinare e aspettare il suo turno, ma l’ovazione degli amici, condita da qualche frase ironica, non gli lasciò scampo. Carmelo si portò al centro e con la sua tipica lentezza, cancellando la prima griglia, si apprestò a disegnare quella di tipo B; finita l’operazione, mentre la fissava soddisfatto, disse: «Come potete notare per questa variante si doveva tracciare una griglia diversa e, volendo essere più completi, alcuni utilizzavano anche quest’altro tracciato (tipo B1), pur mantenendo la numerazione dall’[1] all’[8] e inalterate le regole del gioco; come potete osservare si tratta più o meno di un rettangolo, diviso in otto caselle con ciascuna al suo interno un numero in sequenza».

«Esimio professore sfricchiafav, lei non ha sbagliato na virgola» gridò compiaciuto Pippo, liberando una sgangherata risata che contagiò tutti, e che Carmelo incassò splendidamente con un comico inchino per stare al gioco, che oramai incominciava a prendere la piega del puro spasso, a discapito di qualche finezza tecnica.

«Ringraziandovi indistintamente per l’omaggio che avete tributato alla mia laura, posso solo aggiungere che le regole generali rispecchiavano quelle della precedente variante, e ovviamente vinceva chi commetteva meno errori. Però esimi studenti, che studiano e che devono prendere anche loro una laura, devo precisare che le azioni da eseguire erano decisamente diverse». A queste ultime parole si levò un applauso divertito e una voce fuori campo disse: «Carme’ o moment sona a campanella p nesc’r ra scola, e lassa qujet Totò e Peppino».

«Bene! Per prima cosa u iuwcatur doveva lanciare a chiavuzza dentro la casella [1], centrandola; poi, reggendosi solo su una gamba, doveva spingerla con il piede d’appoggio, lungo tutto il percorso fino ad arrivare alla casella [8], senza far stazionare mai la piccola pietra sulle righe; giunto all’ultima casella, doveva ripetere l’operazione nel senso inverso, fino alla casella di partenza. Per raggiunti limiti di età eseguirò solo un tratto del percorso; ai p’nzàr a ma carina». Altro accenno di applauso, sul quale Carmelo completò la sua descrizione, dicendo: «Se il percorso era risultato senza penalità, u carus avrebbe lanciato a chiavuzza nella casella [2], ripetendo il percorso di prima, e se fosse riuscito a fare la stessa cosa per tutti i numeri della griglia, avrebbe ottenuto il punteggio maggiore, vincendo la partita; come nell’altra variante ad ogni errore il gioco passava agli avversari, rispettando le stesse modalità». Saro si alzò, si congratulò con l’amico d’infanzia ed insieme si beccarono l’elogio di tutti.

(…)

«Sugn Nino e s’avit t’jmp vi cunt u iuwch ra Barca».

Il coro non si fece attendere: «u t’jmp è picca e u ch’far è assai, nacc’t a bozza».

«Svago di resistenza fisica, praticato esclusivamente da ragazzi robusti e prestanti; si giocava divisi in due squadre composte da circa 5/6 ragazzi per ciascuna formazione, con l’aggiunta di un arbitro che dirigeva lo svolgimento del gioco. La prima ed importate fase era costituita dalla formazione della propria squadra, mediante il sorteggio: ad ogni scelta il caposquadra cercava di prediligere i più robusti e più in carne, infatti quest’ultimi avrebbero garantito un peso maggiore da sostenere per la squadra avversaria».

barca«Nzumma s p’gghjàvan i chù ponchj» disse, tra le risate di tutti i carrap’pan, Franca; la parola ponchj, tradotta prontamente per tutte le altre che non conoscevano il significato; il termine era quasi caduto in disuso e risentirlo pronunciare aveva suscitato ilarità, perché rendeva perfettamente l’immagine di un ragazzino grassoccio. Spente le sghignazzate e le inevitabili riferimenti a vecchi coetanei, Nino poté riprendere il suo racconto:

«Formate le squadre tra mugugni e gratuite lamentele, in quando nessuna scelta era mai abbastanza azzeccata, per prima cosa prendeva posizione l’arbitro che si sedeva su un gradino sufficientemente alto, poi la prima formazione estratta si dislocava in posizione prona in fila indiana: Il primo ragazzo appoggiava braccia e tronco sulle gambe dell’arbitro, il resto della squadra, a seguire, si attaccava a lui appoggiando braccia e metà del tronco sopra la parte posteriore di chi lo precedeva, formando una specie di catena umana».

«Praticamente na barca a siccu, senz’acqua» fu il commento di Agostino, che subito lasciò la parola a Nino, senza aggiungere altro.

«E a Carrapip unna era l’acqua?» disse Nino quasi serio, prima di riprendere la sua narrazione:

«Quando a barca si era stabilizzata e compattata, il caposquadra dava il suo assenso al giudice di gara il quale, senza nessun indugio, dava il via libera all’altra squadra già in attesa e pront p r’ncarcàr a carina ri barcaiwl ch eran sutta. Ed allora, i ragazzi della formazione avversaria, in sequenza, con un balzo si lanciavano sulla schiena dei sottoposti, cercando di portare il maggior scompiglio possibile all’equilibrio e alla stabilità della barca».

«Ma non c’era il rischio di farsi male alla schiena?» disse con una certa apprensione Giovanna, subito sostenuta dai commenti della parte femminile del cerchio che lo etichettò, senza ombra dubbio come “gioco violento”.

«l’osservazione nan è sbagghjata; infatti nei preliminari del gioco, la prima raccomandazione era  quella di non strafare, però i saltatori ricevevano sistematicamente i mugugni  dei sottoposti per le scorrettezze messe in atto per cercare, con ogni mezzo, di scompaginare la catena umana».

«Arb’tro, unna l’hai l’; uwcchj talia com si naccazzia chist ca ngapp» la frase, risuonando, richiamò in un attimo l’antica atmosfera della competizione nei sessantenni, catturati totalmente dalla fuga nel lontano passato. Dopo aver tradotto comprensibilmente l’espressione per le straniere, aggiunse:

«Ad ogni salto l’arbitro rivolgeva ai sottoposti la seguente domanda di rito: “sta a barca?”, se la risposta era positiva allora dava l’assenso per il salto successivo; ripetendo, alla fine di quest’ultimo, sempre la canonica domanda di prima. Infine, quando tutti i ragazzi, della formazione saltatrice, avevano effettuato il loro balzo, trascorsi alcuni secondi, l’arbitro ripeteva per l’ennesima volta: “sta a barca?”, mentre verificava se c’erano dei cedimenti e, alla più piccola piegatura della gambe dei sottoposti, fermava il tempo e ne prendeva nota, per poterlo comparare con quello ottenuto dalla squadra avversaria. Ovviamente vinceva la formazione che, attraverso tutte le astuzie possibili, riusciva a far perdere l’equilibrio alla formazione avversaria, potendo anche disporre di elementi alquanto pungghjut’».

«Forse l’ultima cosa da aggiungere è che il passatempo era spesso praticato da giovanotti che davano vita a gare dure e molto competitive, rispetto a quelle giocate dai ragazzini» Aggiunse Enzo, prima di estrarre uno degli ultimi foglietti dal cappellino. (…)

 

Tratto da “Nel Cerchio dei Ricordi. Giochi valguarneresi all’aperto narrati ed illustrati da Rosario Sardisco”, la Moderna Edizioni, Enna 2016