IL GIARDINO DI MIMOSE

Mia madre, nella sua imponente bellezza di donna matura e ancora giovane, sferruzzava seduta all’ombra che la casa proiettava sul giardino nel primo pomeriggio di luglio e, di tanto in tanto, alzava una mano a cacciar via le mosche che le si posavano sul viso: a quei tempi in paese non si faceva la disinfestazione e le strade sporche attiravano insetti di ogni tipo. Ma noi tutti eravamo ormai abituati. Io girellavo all’ombra della grande mimosa, la cui chioma fuoriusciva dalle alte mura che circondavano il giardino, e mi aggiravo fra i roseti ormai sfioriti, i giacinti e gli iris che mio padre amava piantare ad ogni primavera.

Il giardino era rettangolare, suddiviso, a mo’ di croce, da due vialetti che si intersecavano al centro formando una gradevole rotonda, che delimitava le grandi aiuole, dove piante di ogni tipo facevano la loro bella comparsa e regalavano profumi, vespe e tanta aria pura. La mia attenzione veniva spesso attratta dal rampicante che si aggrovigliava ad uno dei sostegni della grande pergola: aveva le foglie così morbide e succose che, strappandone una e stropicciandola fra le mani, ne usciva un liquido verde e denso che somigliava tanto a ciò che i pittori usavano per dipingere. Da qui l’idea: abbellire di ghirigori uno dei pilastri della tettoia che, appoggiata al muro della casa, proiettava la sua ombra grigia su una parte del giardino. Ma anche i fiori servivano egregiamente allo scopo, donando un tocco di rosa intenso a quelle figure che uscivano dalla mia fantasia. Più in là, la grande macchia di margherite sembrava messa apposta lì per essere strappata cercando di indovinare, dai petali sfilati ad uno ad uno, le verità che io in quel tempo cercavo: “ M’ ama, non m’ama, vincerò, non vincerò” e tante altre domande che mi sorgevano spontanee in quell’età di preadolescenza. Mio fratello, rincantucciato, con le spalle appoggiate al muro di cinta, leggeva.

Un mattino di primavera scesi giù per fare un giro con la mia bicicletta ma – sorpresa- non c’era. Qualcuno, incuriosito da quelle alte mura, vi si era arrampicato e, chissà come, aveva portato via la mia bicicletta. Ma io non mi detti pena più di tanto, perché nel giardino c’erano tante altre cose da inventarsi per passare il tempo. Mi venne in mente di trasformare la tettoia in un palcoscenico e così, sistemate alla meglio delle vecchie coperte a mo’ di sipario, inscenammo uno spettacolo. Furono invitati, oltre ai miei cugini, tutti i bambini del vicinato che, sistemati per bene in tutte le sedie che avevo trovato per casa, fungevano da spettatori. Ma mia madre non gradiva che, per i nostri giochi, si mettesse a soqquadro anche la sua biancheria e così quello fu il primo ed ultimo spettacolo che si rappresentò nel bel giardino delle mimose.

In fondo al giardino c’era un grande pollaio, dove le galline, appollaiate sul trespolo, ci deliziavano, quasi ogni mattina, con un paio di belle uova fresche. Naturalmente c’era anche il gallo che, però, era molto geloso delle sue galline… e delle sue uova e così, per evitare delle brutte beccate, bisognava coprirsi bene, fino alla testa, per prelevare il prezioso bottino. Di tanto in tanto, a qualche gallina veniva tirato il collo per farci il brodo, ma tutte venivano sostituite a primavera con dei deliziosi pulcini gialli, che ben presto si trasformavano in pollastrelle e poi in nuove galline. Come facesse mio padre a individuarne il sesso, non l’ho mai capito.

Ma era a Settembre che il giardino si animava più che in ogni altro periodo dell’anno. Tutta la famiglia veniva chiamata a raccolta, perfino le nonne e le zie. Riuniti in cerchio sotto la tettoia, per stare al riparo dal sole ancora caldo, ciascuno teneva sulle gambe un recipiente pieno d’ acqua , dove venivano tuffati i pomodori che, così lavati, venivano prima accuratamente sbucciati e poi ridotti in piccoli pezzetti, con l’aiuto di un affilato coltello. Nel frattempo si parlava ma, soprattutto, si faceva a gara a chi ne sbucciasse di più. La più veloce era, naturalmente, mia madre, la più lenta la mia nonna paterna. Finita la prima fase di sbucciatura e sminuzzatura, i pomodori, con l’aiuto di un imbuto e di un piccolo bastoncino per facilitarne l’entrata, venivano spinti all’interno di piccole bottigliette di vetro che, con un apposito strumento, venivano poi tappate con coperchi a corona, simili a quelli delle birre. Bisognava stare attenti a riempirle fino all’orlo, perché l’aria eventualmente rimasta poteva compromettere la riuscita della conservazione del prezioso contenuto. La terza fase consisteva nella bollitura delle bottiglie: introdotte cautamente in un grande calderone di rame ormai annerito dal fumo e dal tempo, esse sobbollivano piano al calore di un fuoco acceso sotto il trespolo e vi restavano anche a fuoco spento, per almeno una notte, fino a quando fossero diventate ben fredde. Che ansia accompagnava il momento della loro estrazione dall’enorme contenitore! Bisognava contare quante se ne fossero salvate e quante, invece, non avevano resistito al calore, forse eccessivo. Ma mia madre era previgente: le riuscivano quasi tutte.

Passato questo periodo, il giardino attraversava un lungo periodo di riposo, durante il quale i suoi cambiamenti stagionali venivano osservati di tanto in tanto dalla finestra della mia cameretta, sotto la quale un piccolo tavolino, appositamente costruito da mio padre, accoglieva una montagna di libri, di quaderni, di album da disegno e di colori: era cominciata la scuola e quindi non lo guardavo ormai che distrattamente. La mia attenzione a ciò che c’era dietro quella piccola finestra, vestita con bianche tendine di pizzo, si risvegliava dopo una nottata di neve: la mimosa e i roseti non erano che un cumulo indistinto di bianca neve che grondava dai rami assumendo le forme più bizzarre. Nessuna traccia del vialetto, né della rotonda o delle aiuole. Il tutto aveva un che di spettrale e, nel contempo, affascinante. Nel pollaio , le poche galline rimaste, soffrivano d’artrite e zoppicavano: un buon pretesto per trasformarle in uno squisito pranzo di Natale.

Finita l’età dei giochi, quel luogo fantastico cominciò a perdere la sua magia, mentre aumentava l’esigenza di avere più spazio al coperto. E fu così che il giardino, nel giro di qualche anno e con una consistente mole di lavoro da parte di mio padre, si trasformò in una grande casa.

Paola Di Vita