IL MIO RACCONTO

Sono nato nel maggio del 1952, in una casetta a circa 100 metri dal Canale. Ero il
quinto e penultimo figlio di Rosario e Grazia. Mio padre era carrettiere, ma negli ultimi
anni della sua vita lavorava nel pastificio, anche questo situato al Canale, e la vita e le
relazioni del paese non erano tanto male.
Nel 1957, la situazione famigliare ed economica ebbe vari cambiamenti: buoni e
cattivi. Prima ci venne assegnato un appartamento nelle case popolari, nuovo, bello,
rifinito con pavimenti di scaglia, finestre con i davanzali in marmo e la cosa più bella, che
non dimentico mai, il panorama che si vedeva dalle finestre: il Lago di Pergusa, l’altura
di Enna, la valle del Dittaino, i terreni di Paparanza e la meraviglia delle colline che <br>circondavano il paesaggio. Quello fu un momento felice per tutti. Ricordo benissimo la
prima sera di Natale in quella casa nuova e lustrusa, i miei zii con le famiglie fare festa,
al suono delle canzone dell’epoca “Sciuri sciuri”, “Vitti na crozza” che mi sono rimasti
incisi nella memoria in modo particolare. E con profondo rimpianto.
Quasi nello stesso tempo, come se il destino, che da una parte dà e dall’altra deve
togliere affinché non si debba avere tutto nella vita, mio padre si ammalò. Era una
malattia non bene conosciuta in quei tempi, che dopo tre anni di sofferenza lo portò alla
sepoltura. Oggi si sa di che malattia stiamo parlando.
 
Io, alla tenera età di otto anni rimasi senza padre e mia madre, anch’essa ancora
giovane, rimase con sei figli di cui solo uno sposato ed emigrato in Australia. I restanti
cinque a casa: tre femmine di 18, 10 e 5 anni, e un fratello di tredici che per necessità
lavorava con i muratori.
Anche se dagli otto agli undici anni, economicamente, sono stati i più tristi per
me, per altri versi sono stati anche tempi formativi, come se fossi cresciuto con una
doppia velocità e del resto sono le circostanze dure a creare persone dure; ed anche serie,
senza spavalderia, e con un’umiltà che mi viene riconosciuta spesso da gente dentro e
fuori al posto di lavoro.
Ricordo che a quell’età i soldi per il cinema me li guadagnavo andando dal sarto o
dal barbiere o nei cantieri che costruivano le case nei pressi della mia abitazione. Verso i
nove anni, mentre ero alla quarta elementare, alunno del maestro Impertuglia, ebbi
un’esperienza simpatica e indimenticabile: il maestro si era fidanzato con un’altra maestra
del paese che insegnava in un’altra scuola, perciò egli trascorreva parecchio tempo dalla
fidanzata. Per non lasciare la classe incustodita, lasciava a me l’incarico di fare lezioni
durante la sua assenza (io ero sempre il primo della classe) e infatti, anche a fine anno mi
chiese di aiutarlo nel controllo degli esami perché lui aveva poco tempo da dedicare a noi
dato che ne doveva dedicare di più alla fidanzata.
 
Nel 1963, mio fratello, ormai sedicenne, l’unico della famiglia che lavorava,
mentre era su una moto assieme a un suo amico diretti verso il lago Pergusa per uno  2
sposalizio, ebbe un incidente: andarono fuori strada, mio fratello si fratturò una gamba,
smise di lavorare e quel piccolo incasso, che dava un po’ di sollievo, finì.
La situazione andò di male in peggio, mia mamma non sapeva più a che santo
votarsi e quando qualcuno le consigliava di mandare le due femmine in Svizzera, come
facevano alcune ragazze (non troppe per la verità), si rifiutava risoluta: “O tutti o
nessuno”. Fu questo il motivo che ci portò in Australia, facilitati da mio fratello maggiore
che stava già là. Nel Settembre del 1963, lasciammo la nostra bella casa con l’incantevole
panorama e partimmo per la grande scoperta.
Nato e cresciuto in paese, e soltanto per cure mediche avevo visto Enna, l’idea di
andare in Australia per me non era meta da raggiungere solo per un guadagno economico,
ma l’immaginazione fantasiosa di un mondo nuovo, sconosciuto e senza dubbio molto
attraente. Era l’avventura, il sogno, nel senso letterale dei termini; trovare una vita
diversa, dorata, soddisfare tutti i desideri, stare in viaggio per un mese sul mare, che non
avevo mai visto, e poi ancora altre fantasticherie che elaboravo nella testa nell’illusione
di raccontarlo, un giorno, ai compagni di scuola e di giochi, che restavano.
Una delle scene che ricorderò sempre è quando sulla littorina in partenza da
Valguarnera, vedo un amico poco lontano e d’impeto mi metto a gridare: “…vado in
Australia! Poi, al ritorno, ti racconterò tutto!” In quel momento mi ero sentito l’essere più
felice e fortunato del mondo. Che abbaglio! Sarebbero passati qualcosa come 42 anni
prima di rimettere piede a Valguarnera e di tanti amici che avevo, non ne ho incontrato
nemmeno uno. Ma di questo dirò più avanti.
 
Anche se, essendo bambino, il viaggio mi sembrò infinito, mai, neanche nei
peggiori pronostici, sarei stato capace di insinuare che alla fine l’unica bellissima
esperienza di tutti i miei anni in Australia sarebbe stato proprio quel viaggio lungo un
mese. Le cose nuove da vedere cominciarono da Catania e il culmine si raggiunse nello
stretto di Messina, dove ci siamo imbarcati. Se avevo una vaga idea del paradiso doveva
essere così: idem la nave che mi apparve uno sterminato parco divertimenti. Con altri
ragazzini stavamo sempre in giro ad esplorare quella cosa spettacolare grande quanto un
paese, e da scoprire non si finiva mai. Stranamente il mare, così immenso, non ci
incuteva nessuna paura. Certi momenti era così calmo da non accorgerci di essere in
acqua. Le donne stavano sedute nelle terrazze situate in tre piani e passavano il tempo a
chiacchierare con altri componenti di tre famiglie di Valguarnera e con una famiglia di
Ragusa che tornava in Australia dopo una vacanza in Sicilia. La sera o si ballava o si
ascoltava musica o si partecipava ai giochi che venivano organizzati dalla compagnia:
una vera vacanza.
Dalla famiglia di Ragusa si ebbero le prime avvisaglie di cosa ci aspettava nel
continente, ma un conto era sentirlo dire un conto è stato viverlo. Nonostante i loro
racconti poco rassicuranti, non ci lasciammo turbare più del dovuto e il viaggio rimaneva
per noi l’anticamera di un mondo per privilegiati dalla vita facile, lieta e prosperosa. Noi,
avendo un fratello che ci aspettava, avremo trovato il terreno già battuto e con tutti gli
ostacoli superati.
 
Dopo alcune tappe al Cairo, Porto Aden, Perth, eccoci finalmente a Melbourne.
Scesi dalla nave stordito da un cuore che batteva a mille e con l’ansia di vedere…
canguri, coccodrilli girare per le strade? Aborigeni con lance e fionde pronti ad  3
attaccarci? Niente di tutto questo! Confesso che il primo canguro fuori dallo zoo l’ho
visto dopo 25 anni di Australia. Coccodrilli? Si, ma solo durante la gita in una barca per i
turisti. La dogana, che ci rivolgeva domande in inglese, non ricevendo risposte, cominciò
a guardarci male. L’inizio era già brutto (a bedda iurnata si vir r prima mattina) e questa
non era una bedda mattina.
 
Viaggiando in auto, a sinistra, guardavo con gli occhi sbarrancati le strade larghe,
i semafori, i tram (sono come la nostra vecchia littorina che percorrono le strade) e dopo
venti minuti di occhi spalancati, arriviamo a casa di mio fratello dove gli occhi avrei
voluto chiuderli: una casetta che a vederla di fuori ci ha fatto l’impressione delle cappelle
del cimitero di Valguarnera con il tetto a punta, la porta con la rete, una piccola finestra e
quando di botto mio fratello c’invita ad entrare, noi guardiamo per terra e vediamo come
il copri tavola di plastica che si usava al paese, qua serviva per coprire i pavimenti di
legno. Abituati nella casa nuova con marmo a scaglie, questa fu la prima bruciante
delusione.
Nei giorni che seguirono facemmo i conti con il clima: si passava dal caldo al
freddo con una velocità supersonica. Ci si poteva svegliare con 40°C e il tempo di una
colazione scoprivi di essere sceso a 20°. A questi cambiamenti fulminei, ancora oggi, non
riusciamo ad abituarci.
 
Un mese dopo troviamo una casa in affitto peggio di quella di mio fratello: un
ambiente brutto con pavimenti fradici, cucina sporca, topi a dozzine, lacrime di mia
mamma, e il morale giù, sottozero. I rimpianti cominciano ad essere più espliciti,
vengono allo scoperto, l’avvilimento è al massimo grado e lo sconforto si impadronisce
di noi. Tutti desideriamo ritornare nell’amato paese, essere di nuovo a Valguarnera che
ora sì, ci accorgiamo di quanto fosse bello viverci, con gli amici, i parenti, le passeggiate
e perché no, la tranquillità che diventava noia. Saremo stati pronti a fare il cambio ogni
giorno.
Mia madre ha pianto per due anni prima di rassegnarsi e le mie sorelle, signorine,
chissà che tormento avranno avuto nel loro cuore di ragazze cresciute con mille
accorgimenti, come si cresceva allora in paese! Non voglio neanche pensarci! La
lontananza, simile ad una trappola, e soprattutto il costo esorbitante del viaggio non ci
avrebbero più consentito di effettuare l’agognato ritorno. Dovevamo e potevamo solo
infonderci coraggio a vicenda.
 
Mia mamma e le due sorelle più grandi trovano lavoro in una fabbrica di
ombrelloni da mare, mio fratello trova il lavoro con l’altro fratello più grande, in una
fabbrica di condizionatori d’auto. Io e mia sorella più piccola andiamo a scuola. Io vado
in quinta elementare. Il guaio era che non capivo una parola e ancora peggio, gli altri
bambini mi ridevano in faccia; il maestro senza pazienza, si arrabbiava, e non solo con
me ma con altri sei o sette alunni italiani, greci e spagnoli. Difficile dimenticare il primo
giorno di scuola, quando in giardino alcuni alunni giocavano al cricket, uno sport che si
gioca con una palla di grandezza come una da tennis ma pesante e dura come una pietra,
ed io, non conoscendola, nel vederla rotolare verso di me gli do un calcio con tutta la mia
forza e mi fracasso il dito: ai piedi portavo dei sandali leggeri. E chi aveva il coraggio di  4
dirlo a mia mamma o andare dal dottore? Non io di certo! Fra guai e pene il dito è guarito
da sé.
 
Il razzismo era forte, sia per gli adulti che per noi bambini: non in quanto siciliano
ma perché italiano.Ci attaccavano anche per stupidaggini per il piacere di farlo, a volte
solo per i nostri famosi spaghetti come fosse un marchio d’infamia (non sapevano ancora
che avrebbero finito con il mangiarli e gradirli, persino più di noi!), tanto che gli emigrati
che sapevano parlare l’inglese, non si avvicinavano a noi perché volevano farsi compagni
gli australiani. In pochi giorni ci siamo formati in gruppi: italiani, greci, iugoslavi e
spagnoli. In gruppo eravamo più forti e ci sentivamo più protetti. Se si era da soli
rischiavi di prenderle perché nessuno sapeva distinguere l’inglese dal greco o da altre
lingue perciò chi non parlava italiano doveva essere per forza australiano. La stessa cosa
pensavano gli altri emigrati, al punto da rischiare di farla a botte, e solo dopo qualche
mese ci siamo resi conto e siamo diventati amici contro gli australiani: infatti era andata
a finire che stavo imparando il greco e lo spagnolo prima dell’inglese. Da ridere!
 
Quando ho finito la quinta e la sesta elementare, a 13 anni e mezzo, per bisogno
sono andato a lavorare anch’io. Essendo giovane mi hanno consigliato, credendo fosse un
lavoro più leggero, di lavorare in una fabbrica di vestitini per bambini. Invece non era
affatto un lavoro leggero, il primo anno non facevo altro che scaricare e caricare camion
che trasportavano merce.
A quindici anni cominciarono ad insegnarmi come tagliare i vestiti in quantità
industriale, con macchine mostruose che fanno paura solo a pensarci. Continuando su
questo piano, il lavoro lo capivo sempre meglio, anche se non era il mio preferito. Infatti,
avevo una propensione naturale verso la meccanica al punto che fino a pochi anni fa le
auto della famiglia e di certi amici, li ho riparate sempre io.
Ritornando al lavoro pagato, avevo un dilemma: continuare in un lavoro che non
mi piaceva ma che andavo avanti ed ero pagato bene, o incominciare da capo in un’altro
ambiente meccanico o elettricista, per studiare fino al diploma? L’opportunità me la sono
fatta sfuggire e cosi ho continuato in questo lavoro, con certi miglioramenti.
Mi iscrivo ad una scuola serale per il diploma di stilista per uomo, a ventuno anni
cambio lavoro e vado in una fabbrica dove l’abbigliamento maschile lo producevano. A
ventidue anni mi sposo con una ragazza nata a Trieste da genitori pugliesi e a ventitré
ritorno alla scuola serale per migliorare lo studio in generale: inglese, ragioneria, politica
e matematica. A ventisei anni mi richiamano nella fabbrica dove lavoravo prima. Il
proprietario non trovava buoni operai e mi offre una buona paga e mi fa capo operaio di
circa 40 persone. Continuo in questo lavoro con soddisfazione per altri sei anni. All’età di
ventisette anni divento padre, nasce mio figlio Daniel che ora ha 30 anni. Nel 1983 ho
voluto provare a lavorare per conto mio, ho aperto una piccola azienda che durerà fino al
1992. Fu una bella esperienza ma in media fra le buone e le cattive, non realizzai molto
dal punto di vista finanziario. Nel 1985 nasce mia figlia Deanna. Nel 1990 ritorno alla
scuola serale, questa volta per imparare il sistema informatico visto che i computer sono
entrati a far parte di qualsiasi lavoro e nel 1992 incomincio ad inserirmi nell’impiego
dove il computer è parte essenziale. In pochi anni sono riuscito a lavorare con i computer,
creando campionari e addirittura tagliare centinaia di vestiti alla volta con dei comandi
computerizzati, e sempre continuando a frequentare scuole serali di aggiornamento su  5
nuove tecnologie. Dopo anni nell’industria tessile cambio carriera, il motivo: lentamente
dal 1980 al 2000 l’industria tessile e vestiario è stata esportata dalla Cina e come oggi il
99% della produzione viene da lì.
Di nuovo nel 2000 ritorno a scuola per re-inventarmi: questa volta studio per
prendere la licenza di guardia di pubblica sicurezza. Con questa licenza prendo lavoro in
ospedale, e scopro ciò che non avrei pensato neanche lontanamente potesse succedere
soprattutto in un ospedale: aggressioni e violenze continue. Se non fosse per queste
guardie, i dottori e le infermiere non potrebbero fare il loro lavoro senza essere
malmenati. Gli australiani sono bevitori e se vedono girare storto fanno casino, o perché
vogliono essere serviti subito o protestano per il trattamento che ricevono da dottori e
infermieri: insomma dei veri attacca briga.
Il mio primo giorno in ospedale, Maggio 2001, con due colleghi siamo chiamati
di urgenza nel reparto dei pazzi (questa gente ha una forza incredibile, per uno di loro ce
ne vogliono quattro di noi come minimo), per fermare un’aggressione in corso. E’ stato
come aprire ulteriormente gli occhi sulla natura litigiosa degli australiani e la loro
violenza facile, dovuta comunque ad una civiltà che almeno quando sono arrivato io era
ancora di là da venire, con strascichi che persistono tuttora.
Ho fatto questo lavoro per un anno, lavorando fra il reparto dei pazzi, quello di
emergenza (i reparti più pericolosi) e anche nei reparti di malattie. Nel 2002, mi hanno
offerto di lavorare in sala operatoria, come tecnico strumentista, un lavoro che ancora
oggi, dopo sette anni, non finisco di imparare. Per un anno sono stato studente lavoratore
per prendere il diploma e come non bastasse ci sono sempre corsi di aggiornamento che
mi aspettano periodicamente alfine di integrare la conoscenza nel campo della sanità,
mentre non mi faccio sfuggire le occasioni per rivolgere domande a medici e specialisti
durante gli interventi in sala operatoria. All’inizio temevo di non avere stomaco a
sufficienza per superare tutto, ma visto il soddisfacente risultato sono orgoglioso di me e
della forza d’animo che sono riuscito a dimostrare prima di tutti a me stesso.
Attualmente sono secondo in comando dei tecnici e questo eccellente risultato
forse lo devo alla responsabilità che ho sempre dimostrato a colleghi e superiori, sia nei
lavori che in qualsiasi circostanza della vita. A volte mi chiedo se il merito non sia
dovuto alle difficoltà da bambino o perché carrapipano o per tutte e due le cose insieme.
E spesso lo ripeto anche ai miei figli, oggi entrambi laureati.
 
Nel 2005, finalmente torno a Valguarnera insieme a Lidia, mia moglie. La
trepidazione che mi aveva assalito nel lasciare il paese, ritorna ad assalirmi ora che lo
rivedevo. Il cuore che batteva durante lo sbarco verso l’ignoto, ora batteva di
sconvolgimento per ciò che conoscevo e ritrovavo, con la sensazione di essere proiettato
indietro nel tempo. Indietro di quarantadue anni: alla mia infanzia e al bambino che era
rimasto, incontaminato, a Valguarnera.
Per prima cosa vado al comune in cerca di un cugino e intanto rivedo l’immagine
di S.Cristofero sulle piastrelle, che nei ricordi era con dimensioni di almeno quattro metri
per otto e scopro che non è più di uno e mezzo per tre o qualcosa di simile. Anche u
chian d l’urm che ricordavo come una grande piazza mi appare come una miniatura, e
passo dopo passo come trasognato, vado alla ricerca della mia amata scuola (Palazzo
Vecchio) in cui avevo dato il meglio e che sarebbe potuto diventare il trampolino di  6
lancio per un futuro tutto italiano se, come si dice, la terra-madre non si fosse trasformata
in terra-matrigna.
Accosto lentamente il portone e qualcuno vedendomi chiede: “Chi è lei, chi
cerca?” Mi presento quasi balbettando per la forte commozione che mi serra la gola e
poco dopo è l’accoglienza calorosa, quasi trionfale di insegnanti e alunni, come solo a
Carrapipi e con i carrapipani è possibile. Ho dovuto fare uno sforzo sovrumano per
trattenere le lacrime.
 
Dopo quella prima volta vi è stata una seconda e una terza e, fosse per me,
tornerei tutti gli anni in Italia nonostante l’amarezza di non aver mai incontrato, come
avevo desiderato per un’infinità di anni, un solo compagno di scuola, un solo compagno
di giochi. E’ passato tanto tempo su tutti gli alti e bassi, ma se non avessi scritto questo
racconto non ci avrei fatto caso.
 
Se venire in Australia è stato un bene per me? Non credo; avrei preferito crescere
in alta Italia, o qualsiasi nazione del continente europeo. La cultura australiana è molto
diversa dalla nostra. E’ una cultura fredda, l’amicizia è temporanea, finché c’è da bere
sono amici, quando finisce l’alcool finisce l’amicizia. Non sei mai australiano se hai un
nome italiano; se non lavori e ti accontenti del mantenimento del governo fai una vita
misera, se lavori vivi discretamente e se lavori troppo non ricevi nemmeno la pensione di
vecchiaia.
In Australia ho costruito una famiglia, ho una moglie e due figli adorati, mi sono
integrato bene, ma l’Australia non sarà mai casa mia e mi sentirò, magari a torto, come
un estraneo in casa d’altri e cioè un emigrato. Solo a Valguarnera ho provato per la prima
volta la gioia di calpestare la MIA terra, respirare la MIA aria, assaporando, dopo oltre
quattro decenni, l’indimenticabile suggestione di essere nel suolo che dopo avermi
generato mi ha respinto. Fortunatamente non è così per i miei figli attraverso i quali
attingo la forza per accettare di vivere lontano dall’Italia, trapiantato, mio malgrado, in
una terra per aborigeni, carcerati inglesi e profughi da 140 nazioni del mondo.
 
 
(Editing di Beatrice Vacirca Arena)