IN RUSSIA CON LANZA

Partito negli ultimi giorni del 1932 alla volta di Roma dalla natia Valguarnera, dal centro e cuore della Sicilia per raggiungere un ministero dove, grazie all’in­teressamento di personalità del regime, gli era stato concesso un incarico, Francesco Lanza fu costretto ad interrompere il viaggio e a fermarsi a Catania. Nella sua ultima lettera datata 31 dicembre scrive: «In treno sono stato colto da una febbre tale che ho dovuto fer­marmi all’albergo. Si tratta di una iniezione suppurata con sintomi di setticemia. Per due giorni e due notti ho delirato con la febbre a 41. Ora la febbre è a 39, Aspet­to domani mio fratello per tornare a casa: ricado nella trappola, è proprio il mio destino».

Due anni prima eravamo stati insieme nell’Unione Sovietica. Quel viaggio lo aveva profondamente turba­to aggiungendo alle sue precarie condizioni di salute una crisi spirituale dalla quale stentava a riprendersi.

Al suo ritorno non era riuscito a redigere nemme­no una testimonianza letteraria alla maniera dì Gide.

La mancanza di libertà, le deficienze degli approv­vigionamenti, la scarsezza degli alloggi lo avevano im­pressionato. Già alla frontiera eravamo rimasti sorpre­si dalla severità dei doganieri. Ad una signora proveniente da Berlino che nel cestino aveva due cappelli dis­sero che poteva portarne uno solo. Non sapeva quale scegliere, si rivolgeva a noi, chiedeva il nostro consi­glio. Quelle avvisaglie quasi comiche lasciavano so­spettare ben altro.

Nel nostro scompartimento prese posto una gra­ziosa ragazza argentina proveniente anche lei da Berlino. Cominciò a parlare del pericolo nazista, un prete­sto per iniziare la sua lezione. Una lezione, occorre di­re, eseguita con molta passione. Il nazismo non aveva ancora ottenuto il viatico; Berlino per la nuova Russia rappresentava la prima città dell’Occidente con cui oc­correva intensificare i rapporti. Il treno si fermava ogni tanto. La ragazza diceva: «Io tiengo pacienza». Era già notte quando con alcune ore di ritardo giungemmo a Mosca. Il portiere dell’albergo non potè consegnarci le chiavi delle camere che erano state prenotate. Soltanto il portiere di giorno poteva dispone. Anche questo piccolo episodio indicava le inceppature poliziesche.

Dormimmo per terra nel grande salotto dell’albergo, in mezzo ad una folla di clandestini che all’alba scomparvero. Io consideravo transitori questi strascichi di disordine causati dalla rivoluzione; Lanza si sentiva deluso nel constatare deficienze che non sospettava. Se non fosse morto ancora giovanissimo, aveva appena trentacinque anni, forse avrebbe fatto in tempo a tornare a Mosca nei giorni della “perestrojka” e della “glasnost”. Lui che conosceva Puskin a memoria, Majakovskij, Esenin, tutta la letteratura del secolo e attra­verso la letteratura si era fatta un’idea del popolo rus­so, avrebbe certamente aggiunto nuove pagine alle belle prose che ha lasciato. Allora non volle scrivere nem­meno una riga. Le crudeltà di cui venivamo a cono­scenza avevano creato nel suo animo uno scompiglio così profondo da impedirgli di mettere sulla carta i pensieri che affollavano la sua mente. Il fallimento del socialismo (ai parassiti del suo paese augurava di salta­re in aria come i turaccioli delle loro bottiglie), la lotta di Stalin con Trockij, che in quei giorni diventava fero­ce, facevano crollare le sue illusioni.

Voleva capire quanta gente frequentasse ancora le chiese, dato che sulle facciate degli edifici dalle cupole verdi o dorate appariva a grandi caratteri il divieto di suonare le campane. «Le campane disturbano il lavoro degli operai». Uscimmo apposta di buon’ora una mat­tina, prima che la guida venisse a cercarci, per consta­tare se fosse deserta o affollata una chiesa vicina, nei pressi del Cremlino. Il nostro albergo era nei paraggi della piazza Rossa, una piazza allora non ancora am­pliata, come si vede adesso. Qualcuno dentro la chiesa ci guardò insospettito, scomparve. Eravamo ansiosi di conoscere fino a che punto la rivoluzione avesse in­fluenzato e diffuso l’ateismo.

 

 

 

Nel cuore della santa Russia, in Ucraina, la catte­drale di Kiev era stata trasformata in trattoria, le icone d’argento e di rame che avevano ornato le pareti veni­vano messe in vendita nelle bancarelle del sagrato. A Tiflis, la città di Stalin, ai pranzi succulenti che ci venivano offerti, gli anfitrioni facevano seguire forsennate invettive contro la religione. Ogni intervento si conclu­deva con la musichetta dell’orchestra, motivi allora di moda in Francia e in Italia, quasi per addolcire la vio­lenza di quei discorsi. Lanza volle intrattenersi col più accanito degli oratori, andò a chiedergli, con la calma e la sincerità che lo distinguevano, come spiegava il mi­stero della creazione, il viaggio dei giorni e delle stagio­ni, la fioritura dei campi, la varietà dei colori, i frutti degli alberi, e d’un tratto vedemmo l’imponente perso­naggio battersi il petto e singhiozzare, colpito e illumi­nato come da un fulmine.

A Tiflis la fede nei santi raccoglieva ancora molti fedeli. In quei giorni c’erano state scene curiose quan­do le guardie, incaricate di sciogliere un corteo di pro­testa, dapprima erano intervenute con impeto, poi me­scolate e trascinate dalla folla, si erano messe a danzare coi dimostranti.

Erano gli anni in cui Michail Bulgakov, stimato come il rinnovatore della vita letteraria e teatrale di Mosca, aveva incontrato Elena Sergeevna. La donna più bella della città, si era separata dal marito, un gene­rale, ed era andata a vivere con lo scrittore. Bulgakov le dettava i primi capitoli del romanzo II maestro e Margherita. Poi, rimasto senza lavoro, tagliata la luce, il gas, l’acqua nel seminterrato che occupavano, cre­dettero di non avere altra soluzione che la pistola. Ma andarono a gettare la «Browning» nel cimitero di Novadevicij dopo la telefonata di Stalin che consentiva a Bulgakov di riprendere il suo lavoro. Il romanzo, re­spinto dagli editori sette volte, pubblicato molti anni dopo la morte, oltre alla straordinaria fantasia rivela nelle pagine sulla crocifissione di Cristo la sapienza re­ligiosa dell’autore, la cultura che il professore di teolo­gia di Kiev aveva insegnato al figlio Michail. La storia di Lanza fa pensare alla drammatica esisten­za di Bulgakov. Le sue lettere, che per le premurose in­sistenze di Enzo Papa vengono ora pubblicate, lo avvi­cinano alle tremende difficoltà dello scrittore russo. Ma Bulgakov ebbe almeno una deliziosa compagna a confortare i suoi giorni, la donna che Giorgio Zampa ha conosciuto, di cui ha descritto la bellezza; una crea­tura che lo aiutò a scrivere uno dei più bei libri del no­stro secolo. La telefonata di Stalin, definito come un famigerato tiranno, gli risparmiò il colpo di pistola, mentre l’esistenza del nostro scrittore, nell’ambiente retrivo in cui visse, nella sorda incomprensione che lo circondò, risulta perfino più grave. Era ancora nel fio­re degli anni e avrebbe voluto essere soltanto scrittore, non scrivere per i giornali. Chi ebbe occasione di cono­scerlo, chi può leggere i Mimi, con la introduzione che Italo Calvino gli ha dedicato, può rendersi conto della sua intelligenza e della sua fantasia.

In quegli anni il poeta Pasternak aveva terminato Mia sorella la vita, ideava Il dottor Zivago. «Per tutta la vita (scriveva Pasternak) ho voluto farmi uguale a tutti, ma il mondo nella sua bellezza non ha mai ascol­tato i miei lamenti, voleva lui farsi uguale a me». Nell’Urss erano tempi di lotte intestine, di fame, di lunghe code sotto il nevischio per un chilo di pane. Le porte della Lubianka inghiottivano gli esponenti più autorevoli del partito, vi entravano a migliaia e non sa­rebbero più usciti. Dopo mezzo secolo abbiamo saputo che Bukarin aveva fatto imparare a memoria alla consorte il suo testamento. Soltanto adesso dai loro giornali i russi apprendono che era stato Stalin ad ordinare l’assassinio di Trockij.

Avevamo visto le chiese dalle cupole d’oro adibite a trattorie; nelle case dei «biesprisorni», affollate di ragazzi illegittimi, potemmo incontrare creature perdute. Alcuni ragazzi erano sul portone, entravano, uscivano; per non far loro pesare la mancanza di libertà venivano lasciati scivolare da soli nella nuova vita. Ma i loro occhi mettevano paura. Cinismo, disillusione, terrore, riflessi in un pallore senza contorni. Donne convulse e ubriache, sbandati e incendiari li avevano messi mondo in un tempo in cui tutto fu esaltazione. La loro presenza riusciva più impressionante dei documenti esposti nelle sale del museo della rivoluzione.

Nella Russia di quegli anni, la Russia degli anni trenta, bastava pronunziare il nome di Stalin perché attorno ci si facesse il deserto. Ma nei teatri si allestivano spettacoli meravigliosi, la poesia di Maiakovskij, la poesia di Pasternak, si respiravano nell’aria. “Qui anche la neve profuma e sotto il piede respira la pietra” scrive Pasternak.

Mosca era ancora con le facciate e le strade come le videro Puskin e Gogol. Durante il piano quinquennale, quando si diede alla città un assetto più razionale e moderno, gli ultimi colori di Puskin, gli ultimi amorevoli sguardi che immaginavamo posati su quei palazzotti ad uno, a due piani, vennero scancellati e abbattuti. Come se non ci bastassero Maiakovskij e Pasternak facemmo a tempo a vedere Mosca come l’avevano veduta poeti più antichi. Le ruote della carrozzella che e conduceva in giro sobbalzavano su buche profonde sapevamo che erano ancora le buche della rivoluzione, gli ultimi segni di un grandioso disordine. Questo di­sordine si poteva respirare nell’aria. Nel mattino, dalla periferia saliva il brusìo della città mentre il sole illumi­nava le cupole e le mura del Cremlino. Se la temperatu­ra era dolce, riusciva a riassorbire l’umido da sotto i piedi di quelli che erano in fila davanti alle cooperati­ve, e metteva di buon umore anche uomini gravi, pro­babilmente funzionari e impiegati, che si vedevano passare morsicando una mela.

Il Cremlino presentava allora da una parte le sale aperte al pubblico, dove erano esposti gli abiti di broc­cato, le icone, i gioielli delle zarine; dall’altra, gli uffici dove si studiava e si preparava l’economia del paese. Si voleva fare di un arretrato paese la più progredita na­zione, scoprire le ricchezze del suolo, le miniere, le steppe, le foreste, i fiumi. Lo sfruttamento delle minie­re, la costruzione delle fabbriche nelle più lontane re­gioni, la deportazione dei kulaki si potevano compren­dere nella visione di una lotta imminente. Le anime de­boli caddero, le vittime furono migliaia, immensi ba­stioni di diffidenza venivano innalzati, il lavoro collet­tivo prendeva un ritmo ossessionante. I giovani si mo­stravano indifferenti davanti ai vecchi. Nessuno rallen­tava il passo per loro. I giovani di cui Mosca sembrava orgogliosa passando davanti a un vecchio dicevano: «Non importa, deve morire». Una sera, ci parve che le vie di Mosca odorassero di origano. La ragazza che ci accompagnava si era profumata per andare a teatro. Aveva ventun anni; fino all’età di venti anni era stata una danzatrice. Disse che a diciotto anni aveva avuto il primo amore. Ma l’amore era qualche cosa come il vino, secondo lei andava possibilmente evitato. Disse ciò ridendo. L’amore la sviava dal suo dovere. Quando era innamorata non riusciva a lavorare, perdeva la misura del tempo, non sapeva dominarsi, le veniva un enorme appetito. Invece tutti erano chiamati a lavorare col massimo impegno. Tutti gli sforzi erano tesi per la realizzazione del piano economico. Dunque era un paese tragico, puritano, pieno di contraddizioni, difficile da capire, che venivamo scoprendo.

Durante quel viaggio attraverso le varie regioni dell’Unione Sovietica, attraverso il Caucaso, l’Ucrai­na, la Crimea, avevamo conosciuto Otto e Kathe Pohl. Il nome di Otto Phol dice ben poco: attorno alla sua fi­gura non si è fatto scalpore, benché egli sia stato più importante di Kravcenko. Era un ex diplomatico au­striaco, di religione ebraica, dirigeva a Mosca un setti­manale in tedesco; divise con me la cabina durante il viaggio. Capii che era stato incaricato di fornirmi cifre e informazioni, ma, debbo dire, lo fece con la massima discrezione; vedevo come si sentiva a disagio nell’assol­vere tale compito. Se c’era qualche cosa di bello, che la vedessi coi miei occhi: questo, suppongo, dovette esse­re il suo pensiero. Chi era capace di leggere e intendere Puskin e Gogol sarebbe stato capace di vedere e sentire anche la Russia di adesso, avrebbe avuto antenne per arrivare dovunque; così finì col confidarmi un giorno. Non poteva capitarmi una guida migliore, un uomo coltissimo oltre che gentile e modesto, una delle rare figure che onoravano la rivoluzione benché rimasto sempre nell’ombra; poi cadde del tutto in disgrazia quando cominciò la lotta contro i partigiani di Trockij.

Aveva portato un triste fardello, alla fine della prima guerra mondiale, come membro della delegazio­ne austriaca chiamata a ricevere le condizioni di pace; in seguito era stato inviato a Mosca come ministro d’Austria. Tenne quella carica per un paio di anni, ma una mattina convocò il personale della legazione, dai segretari agli uscieri, per annunziare che non si sentiva più di essere il loro capo; aveva deciso di entrare a far parte della anonima società moscovita. Li salutò ed uscì. Fondò un settimanale in lingua tedesca che gli permise di vivere non con le stesse prerogative dei di­plomatici stranieri, di cui aveva usufruito fino a quel giorno, ma in due piccole stanze, con la moglie e la fi­glia, nella speranza che il suo lavoro riuscisse più utile alla società alla quale voleva appartenere. Non fu lui a raccontarmi i particolari della sua vita; capivo però, quando lo conobbi, che riceveva ordini dall’alto; alle volte dovevano abbattersi con spietata durezza sopra un uomo dolce che aveva creduto negli ideali della ri­voluzione alla maniera di Esenin.

Dovemmo accorgerci ancora più chiaramente del suo imbarazzo allorché per un contrattempo caddero tutte le nostre buone impressioni. Una mattina la no­stra comitiva giungendo in una stazione dell’Ucraina trovò allineati sulla banchina quarantotto prigionieri. Uno di essi, riconoscendoci per stranieri cominciò a chiamarci, tentò di levare le braccia, gridò con voce più disperata che rassegnata che erano condannati a mor­te, provocando allarme e scompiglio fra le guardie le quali avevano le pistole fuori delle fondine. Prima del­la guerra non si era ancora abituati a tali spettacoli. Fu un episodio di cui si scrisse parecchio in America. Eugene Lyons, che viaggiava come corrispondente di un’agenzia americana, descrive in un suo libro quei prigionieri come quarantotto spettri che ci accompa­gnarono dovunque, nelle fabbriche, nei colcoz, nelle chiese trasformate in ristoranti, perfino nel fondo pro­sciugato dei fiumi dove venivano collocate le nuove turbine. Ci seguirono come una delegazione di spettri in rappresentanza di migliaia e migliaia di altre vittime. Tuttavia Otto Phol dovette venirci a dire che si trattava di prigionieri comuni, che venivano condotti a poche verste da Rostov, e l’uomo che aveva alzato la voce era un maniaco, un esaltato. Ma era estremamente pallido. Il suo labbro tremava. Sapeva di essere controllato mentre parlava. Avvenivano scene anche meno crudeli.

In Crimea, un giovane in viaggio di nozze mi im­plorò di cedergli il basco in cambio del suo berretto, voleva offrirlo in regalo alla sposina. Qualcun altro avrebbe volentieri acquistato i miei stivali, ma sarei ri­masto scalzo. Dalle vecchie illustrazioni avevo appreso che in Russia tutti andavano con gli stivali. Infatti al Cremlino si potevano ammirare gli stivali di Pietro il Grande; mi accorsi di essere il solo a girare con quella calzatura.

 

 

 

In tutta la Russia non c’era allora che la casa di Tolstoj, la casa di Puskin, la casa di Cechov a darci l’immagine del passato. Come in una piacevole oasi si entrava nella casa di Tolstoj, ricostruita e mantenuta con meticolosa attenzione, con le mele sul piattino ac­canto al calamaio, e attiguo allo studio, nello sgabuzzino, il panchetto, la seggiola, gli attrezzi del ciabattino, lo spago, la cera, i chiodi di legno, lo stivale mezzo fi­nito in preparazione per il genero. Il mio compagno di viaggio, interessato alla crisi religiosa di Tolstoj, am­mirava quel metodo di lavoro, quella fatica ininterrot­ta nel comporre meravigliosi romanzi come Anna Karenina e Guerra e pace passando dal tavolino alla men­sola attaccata al muro che permetteva allo scrittore di riempire dei fogli anche stando in piedi, alternando alle lunghe ore di studio l’opera del calzolaio oppure di buon mattino la distrazione fisica nel trasportare dall’esterno i secchi d’acqua necessari alla cucina.

A Yalta eravamo andati a visitare anche la casa di Cechov. Sorgeva su una collina a settentrione della cit­tà. Sembrava più animata della casa di Tolstoj, dato che la sorella dello scrittore era rimasta a custodire quei piccoli oggetti, penne, calamai, taccuini, ritratti, libri con dediche, giornali illustrati, medaglie, fucili da caccia. Con la grazia che i russi riservano di solito allo straniero, e anche con un po’ di effusione, l’anziana si­gnora ci conduceva in giro per le stanze. Aveva il passo leggero, la voce dolce. Poggiava le dita sopra i mobili, sfiorava gli oggetti quasi per carezzarli. Non mostrava niente del propagandistico entusiasmo dei nuovi tempi. Sapeva che quella casa tutt’al più rappresentava un punto di riferimento col passato. Si aggirava da una stanza all’altra come se fosse stata dimenticata là den­tro, figura di una generazione che non aveva niente in comune con il mondo attuale. Figura quasi simbolica, come le persone evocate da Cechov. Appese a una pa­rete, ci indicò alcune coroncine di alloro. Ce n’era una che un gruppo di ammiratori aveva recato allo scrittore nell’anno 1903, dopo la prima rappresentazione del Giardino dei ciliegi. Agli insuccessi di Pietroburgo era­no seguite al Teatro d’Arte di Mosca le rappresentazio­ni dirette da Stanislavskij che avevano finalmente im­posto all’attenzione lo stile di Cechov. Osservavamo i mobili, le suppellettili, i ritratti appesi ai muri, immagi­ni ingiallite come nei vecchi salotti di provincia. In una fotografia si vedeva Cechov in compagnia di Tolstoj, già molto anziano, e Gorkij giovanissimo, in un’altra era a caccia col fucile in un bosco di betulle. Insieme al­la sorella dello scrittore viveva una graziosa fanciulla, vestita come le fanciulle di un tempo, portava le trecce coi nastrini, sebbene fuori andassero in giro chiassose consomolke coi capelli corti e il giaccone di cuoio.

Più guardavo la casa, più anche questa ragazza fa­ceva pensare all’ambiente del Giardino dei ciliegi. Po­tevamo immaginare il giardino lì intorno, che per l’in­stabile cuore di Liubov Andrejevna era stato un bosco di persone vive. Lanza ricordava quello che dice Trofimov, lo studente, ad Anja; ripetè in italiano alcune battute: «Pensa, Anja, pensa tuo nonno, tuo bisnon­no, tutti i tuoi antenati quando erano possessori di ser­vi. Non ti sembra che da ogni albero del giardino, da ogni ciliegio, da ogni foglia, da ogni tronco, ti guardi­no esseri umani, non ti sembra di sentirne le voci?». Le ferrovie ora passavano lì sotto. Nel silenzio sembrava di udire l’eco lontana della scure di Lopahin. Le due fi­gure apparivano come vanesse crepuscolari. Pareva in­verosimile che anime vive potessero essere rimaste là dentro; così allo spettatore sembra incredibile che gli spensierati personaggi si dimentichino, partendo, del vecchio servitore.

Guardavo la giovinetta dai capelli raccolti a trecce intorno al collo. Le ragazze di Mosca, di Leningrado, di Karkov oggi non scrivono più lunghe lettere agli in­namorati, si contentano di tenerli al corrente con un grafico simile a quello dei dottori che segnano sul fo­glio gli alti e i bassi della febbre. Tutta un’esistenza era davvero scomparsa. Tutti erano partiti dalla villa di Liubov Andrejevna. Sembrava di udire le chiavi girare nelle serrature, in lontananza le sonagliere delle carroz­ze che li portavano via. Tutto era stato messo sottoso­pra, i vecchi palazzi, le chiese. Gli alberi del giardino erano stati abbattuti dalla scure di Lopahin, il trionfa­tore dei nuovi tempi. Tuttavia, nelle silenziose stanze, fra le carte ingiallite, viveva ancora qualcuno il cui de­stino, il cui dramma, era appunto quello di non saper vivere.

Le visite e i programmi che i dirigenti sottopone­vano alla nostra attenzione, finivano sempre con lo slogan «revolutzi i kultury», ma le persecuzioni contro gli intellettuali, le durezze della dittatura, il suicidio di Majkovskij, contrastavano con le aspettative. Tornato in Italia, combattuto e amareggiato, Lanza spiegava agli amici la sua angoscia. «La corda era già tesa — di­ce in una lettera — bastò lo strappo della Russia a rom­perla. Mi lamento soltanto che essa sia venuta nel mo­mento meno opportuno, quando avevo bisogno più che mai di salute e di serenità».

Non aveva approvato certe discriminazioni. Si era lamentato con un dirigente perché ci era stata assegna­ta una cabina di seconda classe mentre francesi, inglesi, americani viaggiavano in prima. Per rimediare a quel piccolo incidente, rientrati a Mosca, venimmo in­vitati a pranzo in una maestosa sala del Cremlino. Ta­vola imbandita con le posate d’oro e il vasellame degli zar. Ci sedevano di fronte due fuoriusciti italiani, in uno dei quali più tardi avrei dovuto riconoscere Togliatti. Un maggiordomo in giacca bianca porgeva i piatti con l’eleganza dei vecchi tempi. Anche questo sfarzo, questa esibizione, non lo soddisfaceva. In una lettera annota: «Mentre la folla non soltanto degli ex borghesi, ma di operai e di donne coperte di stracci fa­cevano la coda per lunghe ore, sotto il nevischio, per mezzo litro di latte e una libbra di pane nero, nei ricevi­menti al commissariato degli Esteri noi pranzavamo con forchette d’oro, vasellame di Sèvres, cristalli di Boemia, una trentina di antipasti, cinque o sei specie di vini e di liquori, tre piatti di carne e tre di pesce, thè, caffè, e piramidi di frutta. Questa la giustizia sociale!».

Venivamo dall’Italia di Starace che ordinava ai giovani di saltare dentro cerchi di fuoco e l’autorevole commensale del Cremlino, alla fine del pranzo, pensò di metterci sotto gli occhi una rivista italiana nella qua­le si vedevano campi di aviazione pieni di aerei. Chiese contro chi il fascismo si preparava a combattere. Lan­za, con la sua sottile ironia, replicò facendo il nome di Trockij. «Da chi i bolscevichi potevano temere di esse­re aggrediti se avevano potuto congedare il comandan­te dell’armata rossa?», Aveva ragione nel constatare la durezza delle lotte intestine mentre Togliatti prevedeva il pericolo di un catastrofico conflitto nel quale anche l’Italia sarebbe stata tristemente coinvolta.

L’onestà dello scrittore non gli impediva di denunziare i difetti e le inceppature della rivoluzione; tuttavia sotto il fascismo, non si sentiva di rivelarne le macchie. Dalle letture di Verga aveva attinto la tendenza a stu­diare il popolo. Vedeva nelle storie del popolo le radici della cultura da far conoscere, le profonde sorgenti da mettere in valore. Nei primi anni della sua fatica lette­raria aveva raccolto favole, leggende, proverbi. Ma le attenzioni dedicate alla condizione e alla civiltà dei contadini siciliani contrastavano con la politica conservatrice dei benestanti coi quali aveva occasione di in­contrarsi al circolo dei civili del suo paese. Discutendo sui torti che essi commettevano, criticando i loro privi­legi, non mancava di provocare risentimenti e fastidi. La Sicilia di quegli anni finiva col rivelarglisi ostile. Il fatto che proclamasse il suo amore per questo popolo, più che metterlo a disagio, lo faceva apparire davanti ai personaggi retrivi quale un pericoloso avversario mentre era l’anima più candida che si possa immagina­re. Testimoniare sulla purghe di Stalin, sulla fame e la miseria cui il popolo russo veniva sottoposto, come i si­gnori dei circoli e delle farmacie avrebbero desiderato, significava che essi erano nel giusto e lui nell’errore, e non era disposto ad accontentarli. Acconsentì invece, e fu un nostro piccolo divertimento, firmando con un pseudonimo in comune (come risulta dalle lettere) a pubblicare dei brevi elzeviri alla maniera dei Mimi; avrebbero potuto dare un’idea caricaturale di quei tempi; ma per nulla desiderava soddisfare gli astiosi gusti di conterranei che non apprezzavano le sue idee. «Sono circondato da odiosità vili, da maldicenze, da ripicche bestiali — scrive in una lettera — non mi diedero i soldi alla banca per il piacere di farmi una mala parte». Raccogliendo le leggende della nostra iso­la, sperava che non se ne perdesse la memoria. Ma ne­gli anni inquieti che succedevano al primo dopoguerra, queste sue polemiche non potevano creargli che aspre controversie.

Eravamo cresciuti percorrendo i sentieri dove Da­vid Herbert Lawrence aveva scoperto i luoghi di Pirandello e di Verga, dove aveva affondato i ferri della sua arte nel complesso amoroso dei siciliani. Avevamo mosso i primi passi intorno alle stesse esperienze. A di­stanza di tempo, un tale cammino desta sorpresa nel riandare a quegli anni in cui avremmo dovuto guardare alla letteratura come ad una religione, capace di tenerci avvinti a questa terra quali nuovi apostoli, invece di of­frirci l’ansia e il pretesto per emigrare. Lawrence arri­vava in un paese da dove noi cercavamo di evadere. Non ci chiedevamo perché egli venisse a vivere dalle nostre parti. Sebbene le nostre fughe non abbiano mai rappresentato un completo abbandono, un abbandono spirituale della terra natia, e al contrario per alcuni co­stituirono il metro per verificarne la qualità, si pensi soprattutto all’esame fatto da Pirandello, rimane ora da chiedersi perché non ci sentimmo di rimanere attac­cati ai tetti di cui Guttuso, finché fu vivo, non smise di dipingere le immagini. Del resto, il primo quadro di questo pittore non è Fuga dall’Etna?

Il dramma economico di Lanza spiega questo di­sagio. Di una cultura sulle origini della civiltà contadi­na, la vecchia borghesia siciliana, intrisa di spagnoli­smo, aveva bisogno per evolversi e il fascismo non era propenso a favorire tale sviluppo. Anche Verga, per ottenere più nitida la visione dei caratteri del proprio paese, si era trasferito nel Nord; il suo ritorno, il suo esempio, non bastava a compensare gli inganni, le de­lusioni, le incomprensioni, le meschinerie che la per­manenza nell’isola comportava. L’aria diventava irre­spirabile a scrittori quali Lanza, Aniante, Vittorini, Patti, Mezio, Brancati. Fuggivamo alla ricerca del nuovo portando nel segreto dell’anima luoghi e sensa­zioni che speravamo potessero fiorire sui fogli di carta, o nelle tele dei pittori; non riuscivamo a convincerci quanto sarebbe stato necessario dedicare sul posto gli impegni e la fantasia alle deficienze secolari del meri­dione perché le vie di ricostruzione e di salvezza venis­sero chiarite.

A Roma le spie dell’Ovra sorvegliavano i nostri te­lefoni; in Sicilia, dove era stato costretto a ritirarsi, la situazione era anche peggiore. Nelle lettere di quel pe­riodo la parola trappola ricorre sovente a significare il cerchio che lo stringeva. Non voleva accodarsi alla re­torica di chi vantava gli splendori di questo paese; in passato aveva ritenuto doveroso, insieme alla poesia dell’isola, denunziarne i mali e i difetti. Aveva creduto come metodo educativo esporre nei Mimi i piccoli in­ganni dei paesani, i loro ingenui ragionamenti, le loro credenze religiose. Sperava con quelle storie di poter combattere l’ignoranza del contadino che confonde il decotto prescritto dal dottore col dio-cotto, il crocefis­so di legno tarlato, scacato dalle mosche, che la moglie mette a bollire per somministrargli le bevande, ma non si sentiva più in grado di continuare questa battaglia con lo stesso ardore letterario. «Sono in campagna – scriveva – dove ho ormai la mia sola casa di abitazio­ne, bloccato dalla noia, dalla disperazione, dal più ventoso e piovoso autunno. Un albero d’arancio quest’anno è pieno di frutti, mi nutro di vitamine. Leg­go Balzac mentre diluvia: l’ossessione del denaro che è in queste pagine si impadronisce miseramente di me». La parola trappola ricorre sovente a significare la diffi­coltà che il vivere in Sicilia gli procurava. Questa sensa­zione lo accompagnò durante gli ultimi anni della sua breve esistenza, un’ossessione dalla quale non riuscì a liberarsi. Nell’ultima lettera da Catania, in cui mi dà notizia del viaggio interrotto perché colto da un’altissi­ma febbre, è la conferma dei dubbi che in precedenza lo avevano angustiato.

Grazie all’interessamento di alcuni influenti per­sonaggi gli era stato finalmente offerto un impiego; lo avrebbe tolto dall’isolamento che lo rattristava. Scrisse che si sentiva rinascere.

Ma messosi in viaggio, doveva essere vittima, an­cora così giovane, dell’ignoranza che aveva lamentato nei contadini di Caropepi. Una siringa infetta, chiude­va la sua preziosa esistenza. Se nonostante l’amore che negli anni giovanili aveva dedicato alla Sicilia questa fu per Lanza una trappola o una prigione occorre trame un insegnamento. Un avvertimento per le nuove gene­razioni, il dovere che abbiamo di liberare da liane invi­sibili gli esseri più bisognosi e sensibili.

 

 

Potei rivedere Otto Pohl qualche anno dopo a Ro­ma, venuto a visitare la figlia Annie. Arrivata in Italia per curarsi, per parlarci di Gorkij e di altri poeti, Annie si era fatta conoscere nell’ambiente letterario di allora. Nei pochi giorni che suo padre vi trascorse, mi resi conto che non aveva più nessun timore, nessuna reticenza a nascondere il suo pensiero sul socialismo di Stalin. La disillusione, la sfiducia entravano nell’accento di un uomo ferito. Un sorriso ironico gli si formava all’an­golo della bocca. La figlia Annie morì qualche anno più tardi a Parigi; non ebbi altre notizie di tutti loro. Poi fu Angelica Balabanof a dirmi che Otto e Kathe Pohl si erano uccisi. Avevano scelto in un modo silen­zioso la loro via per la libertà. Angelica Balabanof può essere considerata la prima nella schiera dei convertiti; lasciò la Russia nel lontano 1922, quando uscirne era ancora abbastanza facile.

Anche queste persone, con le loro anguste vicen­de, appartengono alla storia insanguinata dell’Europa, alla storia cui Gorbaciov cerca di dare una conclusione per aprire il nuovo capitolo. Dopo tanti lutti e disastri, dovrebbe essere per l’umanità un capitolo felice se non intervengono contrastanti dialettiche religiose. Non so­no soltanto gli alberi del Giardino dei ciliegi, i loro tronchi, i loro rami e le loro foglie ad esprimere le voci, i lamenti del passato. Anche la voce di Annie Pohl, di Angelica Balabanof, di Francesco Lanza fanno parte di questo commovente concerto.

Roma, aprile 1989

(Introduzione a Francesco Lanza, “La Sicilia come trappola. Lettere a Corrado Sofia”, Siracusa, 1998)