LA CASA DEL GERANIO

“Si cunta e si ricunta ‘nu bellissimu cunto…”. I ragazzi sono seduti in circolo intorno a lui a mondare mandorle sotto il lume a petrolio. É l‘ultimo scorcio d’estate: presto si tonerà a scuola, in città, e i racconti di Massaro Peppino entreranno anch’essi a far parte della nostalgia. Lo sguardo del vecchio indugia un poco su qualcuno di loro, poi si ferma su un punto lontano, dove la prima stella già brilla sulla parte del cielo ancora chiara… E i fatti passati si mutano in favola.

Si era perduto fra quei monti cosi diversi dai suoi. Era arrivato sull’orlo dell’inferno dopo un viaggio che non finiva mai e si era ritrovato nel fuoco. Per giorni. Mesi. Anni. Poi si era subito adattato alla prigionia e al lavoro coatto: li portavano a riattivare le strade ferrate. Non aveva pensieri, gli bastava respirare e battere con forza sulla massicciata, per sentirsi vivo. Ma era rimasto sordo nel cuore, dove c’erano ancora il fuoco dell’artiglieria e gli scoppi delle granate. E aveva sempre nella memoria lo sguardo dei morti. Quanti! Tutti giovani come lui. Ne aveva viste tante che aveva persino dimenticato la sua casa. “Zimo”, pensava. Era zimo, stalla, rispetto a queste. Eppure qui chiamavano “zime” le loro stanze cosi linde, con le tendine ai vetri, i fiori sui balconcini di legno, i camini fumanti. Gli odori, cosi diversi da quelli di casa, gli erano divenuti familiari e si trovava anche bene. D’inverno poi tutto si faceva bianco e le slitte scivolavano veloci sulle strade gelate. Non ne aveva mai viste prima.

Lui ora viveva alla giornata e lavorava qua e là, senza un genere fisso di lavoro, e questo gli piaceva. Dormiva nelle stalle d’inverno e sui prati d’estate. Gli davano un boccone e un po’ di soldi, e questo gli bastava. Dopo, la sera, si sdraiava sull’erba a guardare le stelle, le stesse del suo paese lontano, cosi povero e grigio, ma a volte, quando si trovava con le persone del luogo, non gli sembrava poi cosi diverso, specialmente ora che si era spostato e aveva ritrovato le campane con lo stesso suono delle sue, e il gesto cosi familiare e rassicurante di porgere la zuppa che avevano le donne, identico a quello di sua madre, anche se la zuppa di cavolo di qui non aveva lo stesso sapore di quella delle sue parti.

Un giorno aveva salvato un bambino che stava cadendo dal balcone, sporgendo semplicemente le braccia ben salde e poi assecondandone il volo – una sciocchezza, neppure una contusione. Era diventato cosi molto popolare e lo invitavano alle feste dei paesi vicini, e lui cantava le sue canzoni tristi o vivaci, e allora gli veniva la malinconia. Aveva nostalgia non della casa né della famiglia, ché troppo presto le aveva perdute, ma delle piante e degli odori del suo paese, delle zagare, dei fichi d’India che segnavano il confine dell’ovile, dell’agave con i suoi steli lunghi e rinsecchiti. Questo cercava di spiegare agli amici, ma non riusciva a trovare le parole adatte; come infatti descrivere il fiore dell’agave, che proprio fiore non è, e che nasce una volta sola, quando la pianta muore? Soprattutto però, non riusciva a far capire di dove fosse: ci si erano provati in tanti a decifrare quel nome, ma senza risultato.

E un bel giorno ricomparve in paese. Un miracolo, perché il suo nome era scolpito insieme con gli altri sul monumento ai caduti in mezzo alla piazza, nell’unico slargo un po’ fuori dove razzolavano le galline e qualche raro tacchino. Quando arrivava il Circo Equestre era li che si accampava, ma se per caso qualcuno si azzardava a fissare il tendone al monumento, Massaro Peppino si infuriava e non dava tregua finché non si lasciava libera la lapide con la lista dei nomi, compreso il suo. Non aveva nessun coetaneo in paese, tutti se li era presi la guerra.

“Dove sei stato? Da dove vieni?” – “Da un paese lontano, dove c’erano campanili senza campane, ma con un balcone e i preti che vi si affacciavano a pregare e tutta la gente si metteva in ginocchio con la faccia fino a terra, tutti nella stessa direzione. Vi erano poi altri paesi con le chiese come le nostre e la Messa e i santi dorati, e la Madonna con la corona di stelle, e i campanili a pizzo o a forma di cipolla. Le donne con i capelli biondi sembravano angeli. . .”.

Al suo paese aveva trovato lavoro in una miniera di zolfo e si era sposato con una bella mora. Anni durissimi quelli, ma aveva fatto crescere bene i suoi figlioli che avevano studiato e poi erano emigrati in Francia, dopo la seconda guerra. Così lui e la moglie erano rimasti soli nella casetta che si era costruito con le sue mani, ingentilita da una piccola balconata di legno marrone con un geranio rosso che lui innaffiava regolarmente. Anche se mancava l’acqua, lui riusciva sempre a trovarla per quella pianticella. La chiamavano “la casa del geranio” e faceva spicco tra le altre case basse e grigie.

Verso i sessant’anni, con la pensione, era cominciata la sua più bella età. Benché soffrisse di silicosi per i molti anni passati sotto terra a respirare polvere, non se ne lamentava mai, si capiva solo da come respirava quando spaccava la legna, con il respiro corto e affannato proprio degli ex-minatori. Aveva avuto la grande soddisfazione di essere stato elevato al rango di ‘massaro’, così lo salutava la gente, e lui se ne compiaceva, perché gli pareva di avere fatto carriera. Faceva il ‘vignere’: le vigne allora erano considerate il corredo della casa di campagna. Doveva badare alla vigna di una vecchia signora ed era diventato fac-totum e custode di tutta la famiglia. Ognuno gli voleva bene e i ragazzi lo trattavano con deferenza chiedendogli spiegazioni e consigli, perché era un’autorità nel suo campo. Quando era in vena raccontava storie incredibili e tutti gli si raccoglievano intorno ad ascoltare.

“Allora, Massaro Peppino, come andò quella storia del mastro bottaio?” – “Con tutta la botte si fece buttare in un salto d’acqua, per far vedere che le botti che faceva lui erano le meglio del mondo. – raccontava – Un salto più alto della Chiesa Madre fece. Dopo la caduta, la botte camminò nel fiume e quando arrivò a riva, lui se ne usci fuori sano come un pesce!”. Di quale salto d’acqua si trattasse non si capiva, perché cascate in Sicilia non ce ne sono…

E poi c’era la storia del cervo che prendeva il cibo dalle mani dei bambini, o quella di un uccello favoloso dal nome incomprensibile, che quando canta è sordo, e solo in quel momento si lascia catturare. “Ma di che colore è?” – “E’ bellissimo, ha le piume di tutti i colori. . . ” – “Ma tu come lo sai?” – “Io l’ho visto” – “E dove?” – “In alto, nei boschi lassù, in Paradiso!”.

In vecchiaia aveva completamente dimenticato il suo inferno e ricordava solo la giovinezza tra i monti, quando cantava a voce spiegata. Ma quello di cui più parlava era il fatto che c’erano dèi diversi e preti diversi e poi finiva col dire che però erano tutti buoni cristiani. Raccontava spesso che in Carinzia si era fatto un amico, un boemo, forestiero come lui, che ragionava al suo stesso modo e amava le sue stesse cose, anche se era di una regione a lui sconosciuta. “Ma tu di che Sicilia di Austria sei?” – gli aveva chiesto un giorno, ma quello non aveva capito. Aveva il sospetto che al mondo vi fossero altre Sicilie, come la sua e tuttavia diverse, dove gli uomini erano simili a lui e ai suoi conterranei, uomini che ragionavano e vivevano allo stesso modo, anche se stranieri.

Quando morì, la moglie in gramaglie, col fazzoletto nero legato sotto il mento, andò a raggiungere i figli in Francia. Alla stazione di Parigi era arrivata più tardi del previsto, perche aveva sbagliato treno e non c’era più nessuno ad aspettarla. Nella confusione aveva perduto i documenti e cercava invano di spiegare l’accaduto ai ferrovieri che non riuscivano a capirne il linguaggio.

Furono chiamati interpreti arabi esperti nei vari dialetti del Fezzan e del Maghreb, finché un italiano di passaggio sciolse l’enigma: “Viene dalla Sicilia!”. Dalla Sicilia d’Italia.