LA MARMELLATA BELGA

1. Oggi, primo luglio 2003, ha inizio il mio racconto che comincia così:

 

Il 21 novembre del 1939 a Valguarnera, Molara Liborio, figlio di Nicolò e Rosaria Arcidiacono provenienti da Niscemi, e Palermo Grazia, figlia di Palermo Giuseppe e Gulisano Giovanna, fanno la classica “fuitina” e, dopo qualche giorno di tira e molla con i parenti che non  volevano più vederli, grazie a uno zio che funge da mediatore fanno ritorno a casa sotto lo sguardo severo dei genitori. Dopo i rituali rimproveri, baci e abbracci per tutti.

I due “fuiuti” prendono casa nel palazzo Giordano in via Crispi, 182, ma i tempi sono duri e i due giovani devono sposarsi (seguito logico della “fuitina”). I parenti si danno da fare per i documenti. Nel frattempo Liborio riceve la chiamata alle armi, ragione di più per affrettare il matrimonio.

Come si usava all’epoca, per i “fuiuti” niente altare in chiesa ma sacrestia. Due giorni prima del cosiddetto matrimonio, i “fidanzati”dovevano imparare “i cosi ru Signuri” (le varie preghiere), ma qui sorge un problema: Liborio come tantissimi altri è analfabeta e dunque nell’ impossibilità di imparare in così breve tempo tutta quella roba. Il parroco Arena avverte che se il futuro sposo non impara le preghiere, lui non celebrerà il matrimonio. Liborio arrabbiatissimo risponde “si nan ma voli fari maritari, ncasumai s’a marita vossia”. Solo dopo una difficilissima mediazione condotta dai parenti, il parroco accetta di sposarli e cosi alle sette del mattino del 6  marzo del 1940 nella cappella dell’Annunziata della Chiesa Madre (“a Matrici”), Liborio e Grazia diventano finalmente marito e moglie.

Dopo un paio di giorni, il giovane sposo parte per la guerra lasciando la mogliettina in ansia per i pericoli cui va incontro (e ce ne sono tantissimi altri nello stesso caso). Un anno e mezzo più tardi, nell’agosto del 1941, Liborio in licenza ritorna a casa dove è accolto con gioia dai familiari e dalla giovane moglie. Ma il tempo passa veloce e viene il momento di rientrare sotto le armi e ritrovare i pericoli della guerra. Naturalmente, Grazia si accorge di essere incinta e scrive al marito (che si faceva leggere e scrivere le lettere della e alla moglie da qualche amico di leva) che aspettava un bambino.

Il 24 maggio del 1942, nasce un bambino cui, come l’usanza vuole, viene dato il nome del nonno paterno: Nicolò. Grazie a questa nascita, e con un premio di cinquanta lire, Liborio ritorna in licenza per abbracciare, oltre alla moglie, il suo primo figlio. Ma si sa che quando si è felici il tempo vola e presto giunge il momento del ritorno in treno ad Ivrea dove era di servizio.

Avendo un figlio, il desiderio di vederlo era grande e dopo aver  attraversato l’Albania e in parte la Grecia a piedi, essendo al culmine della sofferenza si fa ricoverare per attacchi di epilessia. Un grande attore non avrebbe fatto sicuramente meglio poiché i medici gli credono e lo rispediscono a casa per tre mesi in licenza di convalescenza, ma dopo i primi giorni – i tempi essendo scarsi – si cercò un lavoro per racimolare qualche soldo e accettò tutto: mietere, zappare, eccetera, eccetera.

Dopo che Liborio era ritornato al fronte, Grazia gli fece pervenire una lettera che assomigliava molto a quella scritta nel 1941: diceva che aspettava un altro bambino, che doveva nascere  verso metà febbraio e chissà per quale caso nel febbraio del 1945 Liborio si trova in licenza al paese. Ed ecco che la sera del 13 febbraio Liborio e Grazia sono invitati da amici per ballare come si usava all’epoca e per festeggiare la fine del carnevale, dopo un paio d’ore Grazia sente che iniziavano le doglie e subito ritorno a casa. Liborio corre a chiamare la levatrice Marta, ma quando si presenta a casa di costei si sente dire che non c’era e che si trova da amici a ballare (era carnevale anche per lei), e di corsa verso gli amici della signora Marta. Arrivando con il cuore in gola, bussa alla porta e chiede della signora Marta. Questa quando lo vede da solo dice che non viene se non sarà accompagnata da una persona di fiducia. Nuova corsa verso casa dove le doglie si fanno sempre più insistenti, richiesta alla suocera di accompagnarlo perché la signora non vuole essere accompagnata da un uomo solo (non dimentichiamo che siamo nel 1945) e quindi ritorno verso il luogo dove si trovava la levatrice che accetta finalmente di venire; arrivo a casa dove il parto era imminente e dopo un paio di minuti e grazie al lavoro della levatrice all’una e 45 del 14 febbraio 1945 Grazia Palermo dà alla luce un bel maschietto di quattro chili e mezzo che chiameranno con il nome del nonno materno Giuseppe e che poi diventerà Pippo, cioè il sottoscritto.

Siamo nel febbraio del 45 e la guerra non è ancora finita dunque per Liborio ritorno oramai abituale sotto le armi. Dopo un paio di mesi con l’avanzata degli americani e lo sfascio dell’esercito fascista, tanti soldati si trovarono senza comando, abbandonati da superiori che pensavano più a salvare la pelle che ad occuparsi dei soldati: ognuno per sé e Dio per tutti.

 

 

 

 

2. Dopoguerra amaro

 

Ritorno a casa, dunque, dove Liborio trovò, oltre alla moglie, Nicolò di tre anni e Pippo di un paio di mesi. Naturalmente si mise alla ricerca di un lavoro che non trovava, eccezion fatta per qualche giorno in campagna effettuato per qualche lira e un paniere di frutta quando il padrone era una brava persona, ma non tutti lo erano. Inoltre, era dovuto ancora una volta ritornare sotto le armi per ricevere il congedo ufficiale nell’agosto del 1945.

Nel frattempo Pippo comincia a star male. Lo portano dal dottore Barnabà che diagnostica ben tre malattie e che così dice a Liborio e Grazia: “vostro figlio è malato di fegato, ha l’anemia perniciosa e l’impedimento all’urina. Se avete i soldi per curarlo vi faccio la ricetta dei medicinali, sennò è inutile che la faccia” – “Noi i soldi non li abbiamo, ma vossia faccia la ricetta lo stesso che i soldi li troveremo” (più facile da dire che da fare). Quando arrivano a casa aprono il baule dove era conservata la biancheria e guardano per vedere cosa possono vendere per trovare i soldi per le medicine. La scelta si ferma su un paio lenzuola e due fodere per materassi che Grazia aveva ricevuto in dote e, per quel che riguarda le lenzuola, aveva ricamato lei stessa da adolescente.

Ma quel poco che erano riusciti a racimolare non poteva durare in eterno e dopo un paio di settimane  eravamo punto e a capo, e qui entra in ballo la rabbia di Liborio che dice che non era normale che un uomo in piena gioventù e “cu i puza accussì” non potesse curare il figlio e gridò la sua collera dicendo che si sarebbe buttato a rubare, così almeno avrebbe potuto curare il figlio e succeda quel che succeda. Grazia piena di paura grida che non è la buona soluzione e basta avere un po’ di pazienza che qualcosa si troverà, e infatti qualcosa si trovò, chiedendo alla mamma Gulisano Giovanna se poteva prestargli qualcosa finchè Liborio non avesse trovato un lavoro più concreto di quello occasionale in campagna che non gli permetteva di guadagnare abbastanza per vivere decentemente e sopratutto per curare il figlio. Come si sa, per fortuna dopo la tempesta arriva sempre il sole.

Avendo trovato lavoro in una cava di pietra a Castani, Liborio si confida con un collega di lavoro (il signor Palermo che, malgrado il cognome, non è parente della moglie) dicendogli che suo figlio non sta bene e che avrebbe bisogno di vitamine che si trovano in America e che era impossibile avere in Italia per via dell’epoca e del prezzo. La risposta viene come un sollievo anche se non ci credeva tropo: “non preoccuparti, io ho dei parenti in America che ogni tanto mandano un pacco. Chiederò anche le vitamine per tuo figlio e vedrai che tutto si sistemerà”. Liborio si diceva in mente sua che le chiacchiere erano belle ma i fatti sarebbero stati sicuramente diversi. E invece dopo un mese e mezzo circa, la sorpresa. Il signor Palermo si presenta a casa con le vitamine che erano arrivate dall’America e quando chiedono cosa gli devono, lui risponde così “ma nenti, pinsati a curari u carusu e si vi ni bisognanu ancora m’u riciti chi iu mi ni fazzu mannari  ancora”. Non potete immaginare la gioia di Liborio e Grazia.

Dopo le cure e le vitamine, Pippo incomincia a mangiare, a correre e giocare come tutti i bambini sani della sua età. Insomma, tutto si era risolto per il meglio ma non per questo le difficoltà con erano finite. Anzi.

Arrivò cosi il 1948, il lavoro in cava si era esaurito e, non trovando di meglio che “passiari na chiazza” con qualche visita “na Valenti o chian i bucceri”, decide di emigrare in Belgio per togliersi dalla fame dicendo a Grazia che appena avrebbe potuto avrebbe fatto l’atto di richiamo e che quindi saremmo stati di nuovo tutti e quattro riuniti. E così, dopo la guerra e le sofferenze fisiche e morali da essa causate, Liborio riceveva in “regalo” le miniere belghe.

Dopo un viaggio interminabile in un treno con i sedili di legno, arriva a Liegi (esattamente a Montegnée) il 26 giugno del 1948, accolto in una cantina  della “bonne fortune” dove la proprietaria pulisce e fa da mangiare. Fa subito conoscenza della “sua” stanza da letto, stanza dove c’erano otto letti tutti occupati delle volte anche da dodici o più persone poiché i letti si liberavano secondo i turni di lavoro e cosi facendo quelli che occupavano a turno lo stesso letto pagavano un po’ meno permettendo così di risparmiare un po’. Ma questo non era niente: il primo giorno di lavoro scende in fondo alla miniera che è umida, polverosa e rumorosa. Insomma tutto è riunito per indurlo a lasciar perdere e ritornare a casa, ma il pensiero del paese senza domani, della famiglia nella miseria, dei figli che chiedono da mangiare, fa che sì che stringa i denti e inizi a lavorare. Dopo i primi giorni, tutto comincia a sembrar meno duro. Liborio comincia a conoscere gente tra cui il compaesano Filippo Attardi che diventò un suo grande amico. Da allora, era Filippo che gli leggeva e scriveva le lettere che arrivavano e andavano al paese. A riflessione fatta, si diceva che era meglio la miniera con una paga regolare che il sole del paese con la fame.

 

 

 

3. E qui ha inizio un altro capitolo doloroso

 

Dopo essersi più o meno ambientato, Liborio fa ritorno in paese nell’agosto del 1949 per le ferie. Abbraccia moglie e figli che ascoltano i suoi racconti che parlano di un Belgio in cui il lavoro è duro ma la paga buona e regolare o di inverni in cui fa freddo ma la stufa a carbone permette alla gente di stare in casa con le maniche corte anche se fuori c’è la neve.

A questo straordinario evento risale il primo ricordo della mia vita: papà arriva a casa, disfa le valigie, ne tira fuori un barattolo di colore verde, lo apre, vi affonda un cucchiaino e me lo mette in bocca.  Avevo mangiato la “marmellata”. Forse si deve all’inestricabile groviglio tra il piacere goloso che provò il mio palato ed il rassicurante calore che l’apparizione paterna comunicò al mio animo, il ruolo che questi fotogrammi si sono conquistati tra la folla dei miei ricordi.

Dopo le ferie, Liborio ritorna “o Berg”e decide di fare l’atto di richiamo per la famiglia. Dopo le pratiche burocratiche, siamo finalmente convocati ad Enna per le visite mediche. Parati a festa, ci avviamo “o Canàl’” per prendere l’autobus che era stracolmo di viaggiatori che non appartenevano soltanto alla specie umana, visto che non mancava qualche pecora accompagnata da galli e da galline. Sarà stato l’odore nauseabondo degli animali o quello della nafta o le pietose condizioni della strada piena di buche, fatto sta che Grazia si sente male e giù a vomitare  in un fazzoletto. Magra consolazione: tanti altri facevano la stessa cosa.

Alla fine di quel viaggio spossante si arriva finalmente ad Enna dove ci piazzano in una grande sala così zeppa di gente (di Valguarnera e di tanti altri paesi dei dintorni) che è difficile trovare posto a sedere. Finalmente si libera una sedia per Grazia proprio accanto ad una donna di Valguarnera, la signora Lama. Dopo una chiacchierata e l’altra, un infermiere strilla “quelli che devono passare le visite per il Belgio si facciano avanti”. Grazia, seguita da noi, va dietro alla signora Lama. Si arriva così ad un’apparecchiatura per i raggi ai bambini. Quando la radiografia era fatta, si toglieva il bambino e la lastra per passare a un altro bambino e un’altra lastra e così via di seguito. Quando i genitori toglievano un bambino, l’infermiere diceva: “il bambino a destra” oppure “il bambino a sinistra”. Per quel che mi riguardò, andai a sinistra, e dopo avremmo saputo il perché andai a sinistra.

Dopo le visite, fummo convocati dal dottore che disse a Grazia: “lei e suo figlio Nicola potete partire, per Giuseppe invece non è possibile perché ammalato di cuore (benché la cosa le sembrasse strana, dato che come tutti i bambini sani della mia età andavo correndo come un matto a destra e a manca, mamma sentì una lama trafiggere il suo proprio cuore), oppure lo curi e poi potrete partire insieme dopo”. Grazia frastornata si avvia verso l’uscita, e un infermiere la segue dicendole di non andare via che forse, richiedendolo, avrebbe potuto rifare le radiografie, ma lei si trova in un tale stato confusionale che non lo ascolta. Al ritorno in paese,  si reca dal medico di famiglia con la lettera del dottore di Enna. Non si trattava di cuore come la mente turbata di Grazia aveva inteso, ma di tubercolosi, malattia terribile anche se forse meno grave. Ha così inizio un ciclo di cure  che avrebbe dovuto guarirmi da una malattia che scoprirò in seguito di non avere.

Intanto Liborio non vedeva l’ora di andare a prendere la famiglia alla stazione. Grazia scriveva e prendeva tempo dicendo che i documenti non erano ancora pronti. Liborio trovava il tempo lungo perché c’erano famiglie che erano arrivate in Belgio malgrado che l’atto di richiamo l’avessero fatto dopo.

Un giorno Liborio va a fare una visita a una zia e le racconta che Grazia gli ha scritto che non può venire perché i documenti non sono pronti. La zia, invece di riconfortarlo, ecco cosa gli dice: “siii…, idda nan è  chi nan veni  pirchì i documenta nan sun pronti, nan veni pi nan lassari a sa ma”. E ancora rabbia per Liborio che scrive alla moglie e le dice “tu nan vui vèniri pi nan lassari a ta ma, no chi i documenta nan su pronti e si nan vini, iu mi ni truvu n’autra e o pais nan ce vign’ chiù”. Grazia ricevendo quella lettera minacciosa, decide di confessargli tutto e scrive “Caro Liborio, se non sono venuta non è per non lasciare mia madre, ma perché tuo figlio Pippo è malato di tubercolosi” e allega alla lettera un biglietto in cui il dottor Barnabà spiega la situazione. “Allora io non so più cosa fare”, confessa al marito.

Quando Liborio riceve questa lettera, si incazza più del solito, va a trovare la zia e gliene dice quattro di quelle irripetibili. Fa scrivere alla moglie e le dice: fatti trovare a Catania col bambino che io verrò tale giorno (siamo nell’estate del 50) e lo faremo visitare da uno specialista e vedremo cosa ci sarà da fare.

Arriva così il giorno fissato e si affronta il viaggio per Catania. Fu una vera festa per me (meno per Grazia  che non sapeva come avrebbe reagito Liborio): trenino fino a Dittaino e poi coincidenza per Catania sperando di arrivare alla stazione centrale prima del treno con cui doveva arrivare Liborio. Ricordo quel giorno come se fosse oggi: vedo in lontananza il treno che fischia per l’entrata in stazione, poi scorrere i vagoni aguzzando la vista e un finestrino in cui si intravede Liborio -“dda iè u papà, dda è”. Quando il treno si ferma, eccolo scendere con le valigie in mano e Grazia mi dice”curri va brazza o papà ” e lei restava all’indietro non sapendo cosa fare. Gli corro incontro, mi prende in braccio e mi stringe quasi a farmi male , poi vede Grazia e le dice “e tu non saluti a ta maritu”. Grazia non chiedeva di meglio, abbraccia il marito e ci avviamo tutti e tre verso l’uscita della stazione.

Ospiti per un paio di giorni da parenti, si danno da fare per le visite  al bambino. Di nuovo  radiografie e accertamenti finchè non siamo chiamati dal dottore che ci dice: “il bambino è sano, è solo indebolito da una cura sbagliata”. Liborio esclama: “ma come, se a Enna hanno detto che era tubercolosi!”. Per tutta risposta, il dottore mi indica il grande cortile accanto e mi dice “Pippo, vedi questo cortile, fai il giro di corsa, il più veloce che puoi, che quando arrivi ti darò una bella cosa”. Corro più veloce che potevo e quando arrivo il dottore mi dà un paio di caramelle, e, volgendosi verso Liborio e Grazia, aggiunge: “Avete visto come corre? E può correre ancora più veloce”. Mi richiama e mi dice: “Pippo se corri più veloce di prima ti do tutte le caramelle della bustina”. Io, un po’ per le caramelle e un po’ per non sfigurare davanti a mio padre, mi metto a correre con tutta l’energia che avevo dentro. Quando sono arrivato, mi dà le caramelle, e rivolgendosi a Liborio e a Grazia, afferma: “questo vi sembra un bambino tubercolotico?” e poi rassicurante: “andate tranquilli e con qualche vitamina che vi prescrivo in qualche settimana sarà come un leone”. Liborio e Grazia mi prendono in braccio e io vedo scendere dalle loro guance lacrime di gioia, ma ero troppo piccolo per capire.

 

 

4. Un paio d’anni di felicità

 

Adesso che la famiglia è riunita, Liborio decide di non tornare in Belgio e si mette a cercare lavoro in paese. Ne trova finalmente uno come cavatore di pietra nell’impresa Barbarino e tutto fila liscio per un paio d’anni, tanto che può comprare una casa in via Manzoni, 54, vicino alla fontanella detta “di n’capu a pirrera”. Siamo felici di lasciare la vecchia abitazione di via Crispi dove avevamo una sola stanza di metri 5 per 5 e di prendere possesso della nuova che ci sembra un castello con la sua stanza di sedici metri quadri sormontata da altra stanza di identiche dimensioni e da un terrazzo.

Io intanto avevo iniziato ad andare a scuola, col grembiule nero, il colletto bianco e il nastro blu, come tutti i bambini della mia età. Il primo anno andò bene, ma non il secondo. Mio fratello Nicolò, che non amava la scuola, un giorno mi dice: “se tu non dici niente a papà, invece di andare a scuola ti porto con me e altri due e tre compagni a giocare”. Naturalmente non posso non accettare una proposta così allettante e così ci avviamo verso le grotte che si trovano all’uscita del paese a giocare spensierati. Non ricordo con esattezza quando durasse questa “evasione” ma sicuramente abbastanza per essere bocciati e condannati a ripetere l’anno scolastico. Non vi dico cosa successe quando i genitori vennero a conoscenza del fatto. Le “cuzzat’ e carcagnat’” fioccarono a volontà per tutti e due.

Dopo un paio d’anni la cava di pietra andava esaurendosi e Liborio si vede obbligato a cercare un altro lavoro. Si reca all’ufficio di collocamento, e chiede all’impiegato se ci fosse lavoro per lui; questi gli risponde che a Valguarnera non ce n’era, ma che a Niscemi (suo paese di nascita, come sappiamo) cercavano operai per realizzare una galleria. Liborio accetta ed eccoci “emigrati” a Niscemi.

Dopo aver trovato casa, Nicolò va dal barbiere per apprendere il mestiere (“a nzignàrisi l’arti”, come dicevamo), mentre io incontro il mio primo problema di lingua: il primo giorno di scuola quando il maestro m’interroga rispondo con l’accento “carrapipano” e non vi dico le risate di tutta la classe, senza tralasciare il sorrisetto del maestro. In tempo record  imparai il dialetto e l’accento del nuovo paese, tagliando così le unghie all’ironia dei compagni di scuola.

Altro ricordo di Niscemi. Una sera vedo rientrare mio padre con un pacco che aveva difficoltà a portare. Quando lo posa sopra il tavolo e toglie l’imballaggio, sgrano gli occhi: avevamo la nostra prima radio, potevamo così ascoltare le notizie e sopratutto le canzoni. Da allora, sono diventato un fan di musica leggera, assecondando una passione che mi accompagna tutt’oggi; e vedrete in seguito fino a che punto.

Un ricordo meno piacevole di Niscemi. Nella strada dove abitavamo non c’erano le fognature, e allora tutte le mattine si ripeteva lo stesso rituale: un camioncino con una botte si fermava all’angolo della strada e tutti in fila indiana con il secchio in mano andavamo a gettare i rifiuti organici del giorno precedente.

Una volta, un paio di ragazzini della mia età vengono a bussare alla porta, mi chiedono se voglio andare a giocare con loro ed io rispondo che venivo subito in perfetto dialetto niscemese. Mio padre, sentendomi, dice a mia madre che  forse  sarebbe stato meglio rimandarmi a Valguarnera, sennò, quando saremmo ritornati in paese, avrei avuto  gli stessi problemi di dialetto di quando  eravamo arrivati a Niscemi. E così fanno mandandomi da mia nonna Giovanna.

Un paio di settimane dopo, il capo chiama paternamente Liborio e gli dice: “ascolta qui il lavoro sta per finire, tra qualche settimana ci saranno dei licenziamenti, forse è meglio che prendi la buonuscita e ritorni a Valguarnera, tanto qui nella zona non c’è più niente, e se si creerà qualche posto, lo daranno in precedenza alla gente del paese”. E così, a malincuore, Liborio prende la buonuscita e ritorna a Valguarnera.

In paese, l’eterno problema del lavoro si ripresenta. Siamo ai primi di luglio del 1956. Mentre si reca all’ufficio di collocamento, Liborio vede un gruppo di persone che legge un manifesto e chiede di cosa si trattasse. Gli rispondono che in Belgio richiedono mano d’opera. Dopo qualche esitazione, messo davanti allo spettro della disoccupazione, prende la decisione di ritornare lassù da dove aveva cercato di andare via.

E venne così il giorno della partenza (il 7 agosto 1956) con baci e abbracci e la promessa che avrebbe fatto l’atto di richiamo per la famiglia il più rapidamente possibile. L’indomani della sua partenza, arriva via radio una tragica notizia. “Catastrofe in Belgio. Nella miniera di Marcinelle ci sono circa 250 morti di cui almeno 150 sono italiani”. Potete immaginare lo stato d’animo di Grazia con i famigliari che rincaravano la dose: “ma cu ci u fici fari ri irisinni, era migghiu chi si ristava ca”.

Liborio viene a conoscenza della notizia sul treno, mentre stava per arrivare a Milano. E’ preso d’assalto dai dubbi e dalle incertezze, si chiede cosa fare: se andare avanti o ritornare indietro. Prende il coraggio a due mani e decide di andare avanti. E chi vivrà vedrà.

Arrivato in Belgio, ritrova la cantina del 1948, ma a parte i proprietari non conosceva più nessuno. Tanti avevano messo su casa con le famiglie venute dall’Italia, altri erano ritornati nei loro paesi d’origine, e altri non c’erano più perché erano stati “inghiottiti” dalla miniera. Lavorando sodo, prepara la venuta della famiglia. Dopo qualche mese, ci arriva il famoso atto di richiamo. Di nuovo visite ad Enna e dopo i preparativi – tanto in Belgio per riceverci che in paese per partire – arriva finalmente il grande giorno.

 

 

5. Ha inizio l’avventura della famiglia Molara al completo in Belgio 

 

Il 4 febbraio del 1957, accompagnati da tutti i parenti e amici, ci rechiamo alla stazione, la piccola stazione del paese che stava vivendo gli ultimi anni di vita. Il treno parte inoltrandosi a fatica sulla linea a scartamento ridotto ed ha inizio la grande avventura. Ricordo che non toglievo l’occhio dal finestrino, e così fino a Milano dove ci aspettava un autobus per portarci in un ospedale militare in cui dovevamo subire ulteriori visite mediche. Ci fecero alloggiare in un grande stanzone dove c’erano delle brande a castello e dopo tre giorni di “quarantena”, durante i quali fummo visitati dalla testa ai piedi e di dentro e di fuori, finalmente si riparte .

La sera dell’8 febbraio 1957, varco per la prima volta la frontiera, a Chiasso. I doganieri svizzeri ci guardano come se eravamo degli “extraterrestri”. Ci controllano i passaporti e ci fanno svuotare qualche valigia e qualche scatolone di cartone legato con lo spago. Forse stufi di vedere olive nere, pecorino, vino, olio ed abiti di pochissimo interesse, decidono che tutto è a posto; tanto – dovettero dirsi – per fortuna, dalla Confederazione ci saremmo solo transitati. Prima di ripartire, un rappresentante dell’ente che organizza l’espatrio ci dà un cestino di viaggio che contiene, oltre al panino al salame, ecc., un frutto sconosciuto. Quando chiedo a mia madre cosa fosse, mi risponde “mangiatilla chi è bona”. Dopo aver tolto la buccia, lo assaggio, trovo che ha un buon gusto e lo finisco velocemente. Avevo scoperto le banane.

Il viaggio continua di sorpresa in sorpresa. Ad un certo punto, mi chiesi cosa fosse mai quella cosa tutta bianca che ricopriva il paesaggio e feci così un’altra scoperta, quella della neve. Insomma, per me era come un sogno. Mi addormentai felice di tutte quelle novità.

Mentre raccolgo e trascrivo questi ricordi, mi vengono in mente i versi del poema “Lu trenu di lu suli” di Ignazio Buttitta. Le analogie tra la nostra storia e quella della famiglia Scordo mi appaiono così profonde che quei versi (che ascolterò e riascolterò molti anni dopo musicati ed interpretati magistralmente dal cantastorie Ciccio Busacca) mi sembrano appartenere non soltanto al loro autore, ma anche a me. La situazione di Liborio assomiglia come una goccia d’acqua a quella di Turi, il protagonista del poema:

 

Turi Scordu, surfararu,

abitanti a Mazzarinu;

cu lu trenu di lu suli

s’avvintura a lu distinu

 

Una  tana la so casa,

quattro ossa la muggheri;

e la fami lu circava

cu li carti di l’usceri.

 

E così anche la solitudine dell’emigrato:

 

Ni lu Belgiu, nveci, ora

travagghiava jornu e notti;

a la mogghi ci scriveva:

nun manciati favi cotti.

 

Turi Scordu, un pezzu d’omu,

a la sira dormi sulu;

ntra lu lettu a pedi fora

smaniava comu un mulu.

 

Certi voti lu pinseri

lu purtava ntra la tana

e lu cori ci sunava

a martoriu la campana

 

Naturale è quindi l’“atto di richiamo”:

 

            Doppu un annu di patiri

            Finalmente si dicisi:

            “Mogghi mia pigghia la roba,

            vinitinni a stu paisi”.

 

Il viaggio ad occhi sbarrati degli Scordo è anche il nostro:

 

            E parteru matri e figghi,

            salutaru Mazzarinu;

            li parenti pi d’appressu

            ci facevanu fistinu.

 

            La cuvata cu la ciocca

            quannu fu supra lu trenu

            nun sapeva s’era ncelu…

            si  tuccava lu tirrenu.

 

  Ogni tantu si firmava

  pi nfurnaru passeggeri:

  emigranti surfarara,

   figghi, patri e li muggheri.

 

La tragedia di Marcinelle viene appresa dagli Scordo, come da Liborio, sul treno durante il viaggio. C’è una differenza, per nostra fortuna: papà non è ancora arrivato in Belgio e non può essere tra le vittime, come il suo collega Turi.

 

 

6. “Ca nan è com’ o paìs’!”

 

Ma torniamo al 1957, l’anno successivo a Marcinelle, ed al nostro viaggio che si conclude il 9 febbraio del 1957 alla stazione di Haut-Pré (che mi apparve più o meno come nella foto allegata, scattata nei primi anni 50) dove arrivavano i convogli che trasportavano i minatori, ed i loro familiari, destinati ai villaggi di Saint Nicolas, Montegnée e Tilleurad, nella periferia mineraria di Liegi. Ad attenderci c’era Liborio che finalmente vedeva sbarcare in Belgio la famiglia. Assieme a lui c’erano anche mio padrino e mia madrina Francesco Coniglio e Michelina Palermo, non legati a noi da parentela (neanche questa volta!) ma da solida amicizia poiché erano compari dei miei genitori.

Durante il tragitto in autobus, restai impressionato dal nero dominante ed onnipresente, dovuto, come avrei capito in seguito, alla polvere di carbone che si depositava sui muri e in tutto l’ambiente. Cammin facendo, la mia attenzione fu attratta dalle bottiglie e dalle bustine deposte sulle soglie delle finestre e delle porte. Dapprima vedevo bottiglie di latte piene, continuando, invece, le bottiglie diventavano vuote; e lo stesso per le bustine del pane, vuote o piene a seconda della strada che facevamo. Con la mia solita curiosità chiedo il perché di quello strano fenomeno e mi rispondono che in Belgio si usa così: quando si ha bisogno di pane, latte, bibite, ecc. e non si è in casa, si lasciano i vuoti sulle soglie assieme ai soldi che vengono messi sotto una bustina o una bottiglia oppure dentro una cassa di birra o d’aranciata (Vere aranciate, altro che le risibili bustine che conoscevo!) e quando si ritorna si ritrovano le nuove provviste assieme all’eventuale resto. “Ca nan è com’ o paìs’!”, commentò sentenzioso mio padrino.

Arriviamo così a casa, al 23 della rue des Acacias di Montegnée. Con gli occhi spalancati scopro il nuovo appartamento: un piccolo ingresso-corridoio, la cucina, il soggiorno e la camera da letto. Si tratta di una casa popolare. Noi al piano di sopra, al pianterreno un appartamento identico per la famiglia Coniglio e più giù una cantina di uguali dimensioni per le due famiglie. Ci aspettano i figli dei miei padrini, Domenico, Mariella, Concetta e Franco, che non conosco ancora. La mia attenzione è adesso attratta da una specie d’armadio di colore bianco. Qualcuno lo apre, e noto che dentro ci sono bottiglie, carne, latte, frutta, eccetera. Avevo scoperto anche il frigorifero.

L’indomani era domenica e dopo pranzo Domenico chiede al padre se possiamo andare al cinema insieme. Avendo ricevuto 20 franchi ciascuno, andiamo al “Palace”. Del film per via della lingua non capisco niente, ma altre scoperte mi aspettavano. Avendo pagato l’entrata 5 franchi, ce ne restavano 15 ciascuno. Mi chiedevo cosa avrei fatto con  quei soldi: lo avrei saputo subito.

Quando finisce il primo film c’è una pausa di 20 minuti circa. Domenico mi dice: “Vieni con me, subito”. Seguendolo, mi chiedevo del perché di quella fretta. Arriviamo così in una “friture” dove si friggevano in un grande recipiente, stracolmo di grasso di manzo, delle patate tagliate per lungo dal diametro quanto un dito mignolo. C’erano anche tante altre specialità come le polpette di carne con un sugo delizioso e mille altri piatti che facevano venire l’acquolina in bocca. Domenico mi chiede cosa voglio mangiare. Non sapendo cosa rispondere, dico: “La stessa cosa che prendi tu”. Ed eccoci usciti con in mano un sacchetto di patatine fritte alla maionese. Assaporando il gusto di quel divino sconosciuto nutrimento, ero alle stelle e pensavo che per quel giorno ne avevo visto abbastanza. E invece no. Noto che Domenico si affretta e mi domanda di seguirlo. Mi porta al bar del cinema, chiede da bere ed eccomi con in mano una bottiglietta il cui contenuto sarebbe diventato famoso nel mondo intero. Faccio una sorsata e trovo che il gusto è eccezionale: stavo bevendo una coca cola. Altro che cinema “Rocchetti”, altro che caramelle e bomboloni! Ritorno a casa dopo i due film con le tasche vuote ma lo stomaco e sopratutto la mente pieni di quelle novità. Sì – mio padrino aveva davvero ragione – decisamente, il Belgio non era come il paese.

Venne presto il primo giorno di scuola. Pur essendo ormai un ragazzo di 12 anni, non conoscendo la lingua, mi inserirono in seconda elementare assieme ai bambini di 7 anni. Per la prima ed ultima volta della mia vita fui il più alto di tutti (sono infatti alto 1,62 e quindi non si può dire che sia un gigante). Era una scuola da società del benessere. Non appena misi i piedi in classe mi diedero una cartella (“u sacocc’”) di cuoio e poi penne e quaderni. Più tardi, per la festa di San Nicola (“la Saint-Nicolas”) mi avrebbero addirittura dato un paio di scarpe. Altra sorpresa: a metà pomeriggio, ci davano gratis un biscotto e un quarto di latte. Insomma, anche per quanto riguarda la scuola, erano cose mai viste al paese. Tanto più se ripenso all’estrema gentilezza delle insegnanti che facevano di tutto per farmi capire quello che la lingua rendeva più difficile. Veniva anche organizzato un corso di italiano destinato ai figli degli emigrati. Ecco, nella foto, il mio gruppo compunto e sorridente: io sono il penultimo a sinistra in prima fila.

Un giorno che mia madre va a fare la spesa al “grand bazar” di Liegi (altra meraviglia con le scale mobili e tutto quello che si poteva immaginare per la spesa – frutta, carne, abbigliamento, ecc. – sotto lo stesso tetto, un po’ come oggi i grandi supermercati) incontra per puro caso la signora Lama (Ricordate? Quella del 1949 alla visita di Enna) con una ragazzina di circa 13 anni. Le chiede se tutto va bene e la signora le risponde che dopo il loro arrivo in Belgio questa ragazzina si era ammalata e che la curavano con grande difficoltà.. Quando mia mamma domanda di cosa soffra, la signora risponde”tubercolosi”. A casa, riflettemmo su tutto questo e deducemmo che nel 1949 alla visita di Enna ci fu un errore che solo quell’infermiere se ne era accorto; ma non ebbe il coraggio di dirlo apertamente a mia mamma, cosicché la malattia della ragazzina finii per “beccarmela” io.

Dopo aver cambiato casa avendone trovato una più comoda in rue de l’Hôtel Communal a Grace-Hollogne”, paese che confina con Montegnée, Grazia si ammala e non può più camminare.Dopo tante visite dai vari specialisti, un dottore dice a Liborio: “Tua moglie ha un problema a noi sconosciuto e non possiamo fare niente per guarirla, forse ci sarebbe un sistema ma non possiamo garantire nulla. Questa cosa sarebbe quella di avere un altro figlio; forse tutto potrebbe risolvesi, ma, come dicevo, è un tentativo a vostro rischio e pericolo”. Liborio deve dunque ancora una volta prendere una decisione importante, ma questa volta con il rischio che, se non fosse andata bene, si sarebbe ritrovato con una moglie paralitica e un neonato da crescere.

Dopo aver girato il problema in tutti i sensi e vedendo che Grazia non cammina quasi più si dice che se c’è un solo modo per guarirla lo tenterà. Ed è così che Grazia si ritrova incinta tredici anni dopo l’ultimo figlio, il sottoscritto. Durante la gravidanza, non può più camminare e dunque non può occuparsi delle faccende di casa; Liborio, dopo il lavoro in miniera, è costretto a fare da mangiare, lavare i panni, pulire la casa, eccetera ececcetera, aiutato dai figli Nicolò che dopo il lavoro in fabbrica tagliava i capelli a domicilio e che dunque si vedeva poco (aveva peraltro già diciassette anni e quando aveva un po’ di tempo preferiva trascorrerlo con gli amici a correre dietro alle ragazze piuttosto che aiutare papà nelle faccende di casa) e Pippo che, dopo la scuola, faceva quello che poteva. Andando avanti così si arriva al termine della gravidanza.

Così il due aprile del 1958 nasce all’ospedale “de l’Esperance” di Montegnée un bambino che chiameranno Rosario in memoria della nonna paterna. Dopo circa una settimana, Grazia ritorna a casa con il neonato. Con l’andare del tempo, mamma va migliorando sempre più e piano piano inizia ad occuparsi delle faccende di casa. Il “miracolo” aveva avuto luogo. E adesso siamo in cinque.

 

 

7. Il tarlo del paese

 

Liborio però aveva il tarlo del paese e decise che l’aria natale avrebbe fatto bene alla moglie e i figli più giovani. Lui sarebbe rimasto in Belgio con Nicolò ancora un anno o due e poi sarebbe rientrato definitivamente a Valguarnera (cosa, come vedremo, più facile da dire che da fare). E così verso metà giugno 1958 rieccomi di nuovo in treno con Grazia che teneva tra le braccia un poppante che sembrava felice di essere doppiamente cullato dalle ninnenanne materne e da quelle scandite dal ritmo delle rotaie. Io, invece, cercavo di nascondere una certa ansia. Quante cose avevo da raccontare agli amici! Ma li avrei ritrovati questi amici? Avrei ritrovato il paese ed i parenti così come li avevo lasciati? Durante il lungo, interminabile, viaggio, la mia mente divenne una sorta di schermo bianco dove vennero proiettati a ciclo continuo i ricordi della mia prima infanzia.

            Vista la stagione, il primo film ebbe per soggetto Cafeci dove mio nonno materno, Peppino, possedeva due lembi di terra, a distanza di meno d’un chilometro l’uno dall’altro, che aveva battezzato “Cafèc’ dda ngàp’” e “Cafèc’ ca sutta” e che coltivava con passione. Il primo possedeva una straordinaria varietà di frutta: uva, fichi, prugne, pere, mele, ciliegie e delle qualità meno conosciute quali le sorbe e gli “amèdd’” (di cui non saprei dire il nome italiano). Non mancavano né gli alberi secolari come i noci e i castagni nè una casetta altrettanto secolare che ci riparava dal sole e, se occorreva, anche dalla pioggia.

E’ evidente che per le “ferie estive” andavamo tutti a Cafeci con grande disperazione del nonno che vedeva sbarcare, oltre ai figli, una mandria di scapestrati nipotini. Eravamo infatti noi il suo cruccio. Quando  arrivavamo ci riuniva tutti quanti e ci raccomandava di non cogliere i frutti dagli alberi. “Quando ne volete”, aggiungeva, “me lo dite che io vi colgo i più maturi”. Noi, obbedienti e rispettosi, annuivamo con convinzione, ma poi quando lui andava via per le sue faccende noi coglievamo tutti i frutti che ci capitavano sotto tiro. Compresi quelli non ancora maturi che, dopo averli assaggiati, buttavamo via. Quando lui ritornava e vedeva quello scempio sgridava tutti, figli e nipoti, dicendo che gli rovinavamo la campagna. Dopo qualche”banniùn’” e qualche “cuzzata”, ci consegnava ai nostri genitori che spesso ci davano il resto.

            A “Cafèc’ ca sutta”, invece, c’erano due grandissimi alberi di “ciùzz’”, uno che dava dei deliziosi frutti bianchi e l’altro che produceva quelli neri, altrettanto deliziosi, ma con la piccola pecca della macchia facile. Visto che con i gelsi neri facevamo delle vere e proprie battaglie, quando avevamo finito eravamo irriconoscibili per la nostra grande gioia e per la disperazione delle mamme che dovevano”stricarci” a dovere per togliere tutte quelle macchie.

            Il secondo “film” era la tragicommedia della prima volta che andai in bici. Tragicommedia, cioè tragedia e commedia nello stesso tempo, come si potrà facilmente constatare. Verso i nove anni, vedendo certi ragazzi andare in bicicletta, mi venne voglia di provarci anch’io. Essendomi procurato i soldi (non ricordo come, probabilmente di nascosto attingendo alla borsetta di mammà), mi precipito in via Sant’Elena “no twurt”, un signore che possedeva alcune biciclette da affittare a orario e ne scelgo una (la più piccola, vista la mia età e la mia statura).  Il signore mi chiede se sapevo andare in bici ed io mentendo con gran naturalezza rispondo di sì. Vuole i soldi in anticipo e mi dice: “Ecco la bicicletta per una mezzoretta e ritorna in orario sennò ci sarà un supplemento da pagare”. Non essendo mai salito su di una bicicletta, era logico che appena montato sopra  e dopo un centinaio di metri (o anche meno) percorsi sudando freddo e zigzagando, mi ritrovo a terra. Dopo appena cinque minuti eccomi di ritorno con la bicicletta “scav’ghiata” e io “tutt’ scurciàt’”. Incontenibile l’ira “ru twurt” che imprecava e strillava: “M’ scassau tutta a br’c’chetta e ora cu mi runa i sord’ p’ giustàr’la”.

Il bello (o il brutto, se si preferisce) fu quando rientrai a casa e mia mamma mi chiese cosa mi fosse successo. Risposi che ero caduto con la bicicletta e mia mamma a gridare “Su d’sgraziàt’ ch’ c’ ret a br’c’chetta o carus ch’ s’ stava ijn’ a mazzàr’”. Quando “u twurt” vide mio padre gli chiese i danni. Mio padre gli rispose che doveva ritenersi contento di non essere stato denunciato “ca o moment’ m’ stava fann mazzàr’ u carus”. E così il mitico “twurt” dovette riparare a proprie spese quella dannata “br’c’chetta”. Chissà se, passando davanti al suo negozio, il biciclettista sghembo mi avrebbe fulminato con lo sguardo o se quell’episodio era stato invece sepolto in un rappacificante dimenticatoio.

Una cosa che in Belgio mi era mancata l’avrei sicuramente ritrovata: la lettura dei miei adorati giornaletti. Si trattava di fumetti, in gran voga in quegli anni, dal bizzarro formato rettangolare di circa 15 centimetri di larghezza per 7 di altezza ed aventi per protagonisti indimenticabili eroi: Capitan Miki, il Grande Blek, l’Uomo Mascherato, Tex Willer, Kit Carson, eccetera, eccetera. Mi aveva iniziato a quell’affascinante esercizio il mio giovane zio Nino Palermo che era talmente appassionato di quelle letture da usare, assieme ai suoi amici, i giornalini per giocare a carte. Mi spiego meglio: i fumetti, quotati in un’improvvisata specifica borsa, sostituivano i soldi (o le fiches, se si preferisce) per cui, sul “tappeto verde” casereccio aleggiavano frasi quali: “Un Capitan Miki per due Uomo mascherato” oppure “Tre Tex Willer per il numero speciale del Grande Blek” e così via di seguito.

L’arrivo del trenino alla stazione del paese pose fine alle mie fantasticherie ed allo spossante viaggio. I parenti venuti ad accoglierci si mettono a gareggiare nel fare i complimenti a Grazia.per la bellezza del neonato che vedono per la prima volta. Io ritrovo la mia vecchia casa di via Manzoni, 54 ed ha inizio un altro capitolo della mia vita.

(continua)

 

Liborio in tenuta militare nel 1940Valguarnera, 1940. Grazia PalermoValguarnera 1946. Nicolò e Pippo (Studio Barbagallo)Valguarnera 1947. Grazia, Pippo e NicolòAdesso siamo in cinqueClasse di italianoHaut-Pré, la stazione d'arrivo