LO STUDENTE

Voci concitate dal corridoio cancellarono del tutto il torpore di quel primo mattino di maggio. “Fuori, fuori, tutti fuori, presto”. I poliziotti, con casco e manganelli, cominciarono a perquisire le stanze cacciando i giovani assonnati, chi in pigiama, chi in canottiera e mutande. Erano tutti in fila, compresa qualche ragazza, quasi tutti consapevoli di quanto stesse succedendo. In una camera sequestrarono delle catene, in un’altra passamontagna e visiere.

Durante le ore trascorse in corridoio, Francesco ripercorse il suo ultimo tragitto di vita.
Le onde fluttuavano lente, tagliate longitudinalmente dalla chiglia dell’imbarcazione che provocava una spessa schiuma bianca infrangendosi sui fianchi metallici dello scafo e producendo un’allegra risalita di goccioline spumeggianti che lambivano i passeggeri affacciati al parapetto della nave traghetto. Francesco osservava davanti a sé il cielo plumbeo di quel primo pomeriggio di novembre del 1971, interrotto a tratti da sprazzi di azzurro che illuminavano di riflessi argentei la cupa superficie delle acque.

Due sponde opposte sembravano volersi toccare e allontanarsi insieme. A destra , ancora Messina richiamava alla mente ricordi di cui si voleva dimenticare: l’infanzia trascorsa in quel piccolo paese dell’entroterra siciliano, le difficoltà del lavoro e degli studi, la ragazza che lo aveva lasciato. Ma ancora di più la mente andava ai suoi avi che, nel lontano 1908, avevano abbandonato quella città per sfuggire alle insidie del terremoto che l’aveva distrutta completamente. A sinistra c’era la Calabria, il Continente, meta delle sue speranze e delle sue paure, un mondo ancora sconosciuto verso il quale si stava avventurando con paura, con speranza, per sfuggire a un destino segnato, per i sogni che aveva dentro. Chissà cosa avrebbe trovato al di là di quelle sponde rocciose che ormai si avvicinavano a vista d’occhio e inducevano i passeggeri ad avviarsi verso la stiva per prendere posto sulle carrozze del treno che da quasi mezz’ora avevano lasciato per godersi quel meraviglioso spettacolo di paesaggio.

Francesco attraversò per un attimo l’ampio locale adibito a bar, dove l’odore di fritto degli arancini ancora caldi lasciava nell’aria una scia nauseabonda che lo indusse ad uscire al più presto da quel luogo. “Non ho voglia di mangiare” pensò. E dire che erano già quasi le tre del pomeriggio. Quando il lungo treno uscì finalmente dalle viscere del traghetto e fu alla stazione di Villa San Giovanni, il cielo aveva assunto delle sfumature rosate, le nubi si erano diradate e l’aria era più fresca e pulita.

A Villa il treno si riempì e Francesco dovette cedere il posto ad una coppia di anziani con un bambino che si recavano a raggiungere il figlio che, da alcuni anni, era emigrato a Milano. Ah, Milano! Era la sua meta per continuare gli studi, ma egli non ci aveva mai messo piede, così se la immaginò come una città immensa, avvolta nella nebbia e nei fumi delle fabbriche, ma ricca di speranze per il futuro.

Il treno era affollato ed egli, non trovando più posto, si spostò nel corridoio, poggiò sul pavimento la grossa valigia di cartone telato verde e vi si sedette sopra. Dal finestrino i pali che sostenevano i fili dell’energia elettrica, scorrevano veloci, a volte accavallandosi e producendo, in chi li guardava, una sorta di stato ipnotico che induceva un torpore quasi letargico. Aveva sonno, ma non avrebbe potuto chiudere occhio almeno fino a Roma, quando alcuni passeggeri sarebbero scesi, cedendogli finalmente l’agognato posto in una delle poltrone dello scompartimento.

Giunsero a Roma che erano le ventiquattro. I passeggeri scesero e quindi si liberò un posto a sedere accanto al finestrino, di cui Francesco approfittò subito per sedersi e godersi quello strabiliante brillìo di luci romane. Quando il treno fu già in aperta campagna, finalmente si addormentò.

Più tardi, la pianura Padana si spalancava davanti agli occhi come un’immensa distesa di campi coltivati e perfettamente allineati. Le luci ,ancora accese in quelle case sparse, man mano si spegnevano perchè incominciava a farsi giorno. In lontananza si intravedeva il movimento dei contadini che si apprestavano alla cura degli animali nelle stalle e dei terreni. Più avanti, le fabbriche ancora ferme stagliavano nel cielo la loro sagoma indistinta per la nebbiolina mattutina che creava un’atmosfera incantata e magica. Alle dieci una voce rassicurante al microfono gridò: “Milano Centrale”.

Dai vetri incorniciati in ferro che ricoprivano le alte volte della stazione, traspariva una luce intensa, accecante, per chi li guardava in modo diretto, come fece Francesco, che mai aveva visto tanta grandiosità. Scese le ampie scale e si trovò in uno spazio dove larghi corridoi indicavano la direzione che si volesse percorrere. Un po’ perplesso,anche a causa della grossa valigia, guadagnò l’uscita e cercò subito un taxi che lo condusse in breve tempo a Città studi dove avrebbe cercato l’ indirizzo di una casa che lo potesse ospitare. Lo stupore fu grande quando si trovò davanti l’immensa piazza Leonardo da Vinci , dove un ampio parco centrale, che invitava al silenzio e alla pace, era percorso a tratti dagli stridii dei tram che la circondavano e scampanellavano ogni volta che lasciavano il passo alle automobili o facevano scendere i passeggeri. Sullo sfondo, l’imponente edificio liberty del Politecnico incuteva meraviglia e timore per la sua grandiosità. Dai cancelli dell’edificio usciva uno sciame di studenti che, dato l’orario di tarda mattinata, si avviavano a pranzo. A un gruppetto di costoro chiese informazioni e gli fu indicata la Casa dello studente, che si trovava alle spalle di piazza Leonardo da Vinci.

Così si incamminò con loro e giunse presso la casa indicata: un palazzo anni quaranta, di mattoni rossi anneriti dallo smog, con tante finestre ai vari piani che si affacciavano sulle strade adiacenti e con un ampio ingresso sopra il quale sventolavano le bandiere rosse, la cui facciata era ricoperta da manifesti murali inneggianti alla rivoluzione comunista e denigranti il potere capitalistico che era rappresentato in special modo dalle società multinazionali, cosa che lo stupì per l’assoluta novità.

Entrò nell’ampio androne dopo aver salito alcuni gradini. Il corridoio pullulava di studenti che si avviavano alla mensa ed egli fu particolarmente colpito dall’abbigliamento pressoché uniforme che li caratterizzava: barba incolta ed eschimo verde militare. Si guardò provando appena un po’ d’imbarazzo nell’osservare il suo impermeabile di pelle color cuoio, e vergognandosi per i suoi capelli stirati, la faccia imberbe e la grossa valigia di provenienza meridionale, che lasciò provvisoriamente in portineria. Dovevano passare non molti giorni perchè il suo look si uniformasse quasi completamente a quello degli altri ed egli si trovasse coinvolto fino ai capelli in quell’ambiente così eterogeneo per provenienza geografica e così uniforme per ideali e intenti.

Scese nel piano seminterrato dove la mensa era estesa quasi quanto l’ampio fabbricato. Gli odori di cucina raggiungevano anche la parte più distante del corridoio d’accesso, ma egli non aveva appetito e preferì osservare le sedie di metallo laccate di bianco, i tavoli di colore grigio chiaro , sui quali venivano appoggiati i vassoi di legno contenenti le pietanze scelte al self service, presso il quale la lunga coda di studenti gli consentì di avere il tempo per osservare nei minimi particolari l’ampiezza della sala gremita di persone di ogni nazionalità intuibile dal colore della loro pelle e dalle caratteristiche somatiche. Finita la fila, notò dietro i banchi persone non dissimili da quelle che aveva osservato precedentemente, intuendo così che anche i pasti erano gestiti dagli stessi studenti che, così facendo, potevano guadagnare qualcosa per mantenersi agli studi.

Mangiò in fretta perché il suo pensiero era rivolto alla stanza che avrebbe cercato ma, di lì a poco, seppe che c’era posto anche per lui proprio in quella casa. Salì al piano terreno, verso la portineria, tra gente che vendeva sigarette di contrabbando e, nella sala bar, gestita anch’essa da studenti, bevve un caffè che pagò appena trenta lire. Gli studenti del comitato gli comunicarono che avrebbe alloggiato alla stanza 426, dove avrebbe trovato un altro coinquilino, un israeliano che era lì dal giorno prima e non conosceva ancora neanche una parola d’italiano e che non usciva mai dalla stanza per timore di incrociare qualche palestinese che alloggiava nella casa comune. La stanza era pressoché quadrata, con due letti in formica verdi nella stessa tinta delle scrivanie e delle sedie. Accanto all’armadio a muro, che serviva per riporre valigie e indumenti, c’era un lavabo, con un piccolo ripiano e un fornello.

Alle quattro di pomeriggio, si avviò verso il Politecnico. Oltre il cancello, un viale costeggiato di platani si apriva davanti ai suoi occhi. Lo percorse incuriosito e presto si trovò in un groviglio di altri viali, interrotti da sprazzi di prato, dove ragazzi e ragazze si attardavano a conversare, scambiandosi libri e materiale didattico. Altri ce n’erano lungo i porticati che collegavano i vari padiglioni, dentro i quali erano ubicati i vari dipartimenti. Nelle bacheche dell’androne egli cercò qualcosa che potesse fornirgli qualche utile informazione, in particolare gli orari delle lezioni che, seppe, sarebbero per lui iniziate l’indomani. Notò, con particolare piacere, che la sua prima lezione di Scienze delle costruzioni, disciplina fondamentale ad Ingegneria, era fissata per il giorno seguente alle ore 14 con il prof. Orlani e andò a fare una breve ricognizione nell’aula interessata.

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Uscì che era già buio e dovette rimandare ai giorni seguenti la visita delle zone centrali di quella sconosciuta città. Attraversò stupito Viale Romagna, non avendo notato prima la sua ampiezza, e ritornò in fretta nella sua camera della Casa dello Studente, per disfare le valige. L’israeliano dormiva. Invano Francesco cercò di intavolare una discussione. Seppe poi dagli altri coinquilini che era ancora terrorizzato dagli studenti palestinesi che aveva incontrato nella mattinata. Si era appena conclusa, infatti, la guerra tra Israele Egitto, Giordania, Siria e Libano contro l’OLP che aveva dato inizio all’occupazione della striscia di Gaza ,delle alture del Golan e della penisola del Sinai da parte degli israeliani. Le forze dell’OLP avevano fatto base in Giordania, costituendo una minaccia per re Hussein. La tensione era culminata con il massacro di molti profughi palestinesi, episodio che passò alla storia come “Settembre nero”(1971). Infatti, dopo pochi giorni, lo studente israeliano si trasferì e venne quasi subito rimpiazzato da un più rassicurante studente siciliano.

I mesi passarono in fretta, tra lezioni all’università, esami, e scappate in centro. Poche, perché non c’era né tempo né soldi. Fino a quando quell’irruzione dei poliziotti non lo mise a contatto con la dura realtà, divenendo al contempo il momento apicale di quel percorso ideologico iniziato già molti anni prima, quando, con i ragazzi del suo paese cominciava a rendersi conto dei problemi politici e sociali della sua epoca.

Quella mattina, scrollatosi di dosso il sonno che ancora li pervadeva, gli studenti capirono a cosa era dovuta l’irruzione della polizia: i militanti dell’associazione extraparlamentare Lotta Continua, avevano ucciso, in un agguato, il Commissario Calabresi, presunto responsabile dell’omicidio Pinelli, anarchico collegato alla strage di Piazza Fontana. Quella sera il portone della Casa dello studente era stato chiuso in via precauzionale perché si temeva un attacco delle frange fasciste. Si era infatti ancora in pieno clima sessantottino, quando studenti e operai si battevano contro lo sfruttamento della classe operaia da parte del sistema capitalistico.

I poliziotti lasciarono la Casa verso le sette del mattino, dopo aver fermato lo studente al quale erano state sequestrate le catene e aver schedato tutti gli altri. Nell’assemblea susseguente venne fuori che le perquisizioni erano avvenute in tutte le sedi universitarie occupate: il sistema capitalistico aveva sferrato un ulteriore attacco agli studenti e alle forze proletarie, per cui si deliberò affinché venisse intensificata la protesta.

Questi mesi di lotta e di confronto aperto con le forze operaie e studentesche, avrebbero segnato profondamente l’indole e la personalità di quello studente meridionale che mai avrebbe immaginato di poter essere coinvolto in uno dei più grandi periodi rivoluzionari della storia. Oggi le considerazioni su quel periodo storico sono molto controverse, ma è comunque innegabile la ventata di novità e di determinazione che esso portò nelle giovani generazioni.
Certo, come tutti gli eventi, fu spesso strumentalizzato e gli hanno nuociuto gli estremismi, il terrorismo che di lì a poco avrebbe insanguinato le strade delle città italiane.

Paola Di Vita