L’ORA DEL CIRCOLO

Lentamente un senso di freschezza, come un tremolio furtivo di foglie, alita sul paese avvilito dal sole che vi ha sfolgorato per tutto un meriggio lungo e stagnante come un’eternità; s’adagia in rettangoli vellutati d’ombra, frastagliati d’embrici, di comignoli e di veroni nelle strade deserte e risonanti come imbuti di latta, s’insinua attraverso gli spiragli e le fessure nelle case misteriose e sepolcrali, dove l’afa fluttua densa e appiccicaticcia come una colla, sommergendo in un catastrofico torpore le cose, gli avvenimenti e gli esseri.

Alla fine della sua traiettoria il sole s’addolcisce, stemperando la canicola in un oro fluido e vibratile in cui s’impallidisce ingenua e nativa la campagna, distesa e palpitante nel cerchio malsicuro dell’orizzonte: Enna da una parte vira di bordo verso il grezzo, impervio prisma di Assoro, più lontano Mongibello, come una splendida mammella riversa, porge il suo capezzolo alla bocca capricciosa di una nuvola. Il mondo si schiara con una grazia prossima, con un umore infantile: le rocche di Càstani bianche come marmi si potrebbero toccare con la mano.

Si comincia a rifiatare: alla prima brezza che scivola lieve come respiro, quasi inavvertita, si direbbe che gli olivi lontani arrivino a stormire fin qua, portandovi qualcosa d’agreste, di vegetale.

È questa l’ora che il paese, rotte le muraglie dell’afa, che lo imprigionavano come una mandria in un lezzo di letami, in un fortore d’uomini e di bestie, si apre tutto e s’abbandona, si spalanca con un respiro di sollievo verso la campagna straripante, e si aerea, si ossigena, si fa lieve, quasi immateriale, sospeso alla guglia esile di Sant’Antonino che sembra esalarsi nel chiaro gorgo dell’aria.

Le brezze, i soffi vi irrompono, lo ventilano da ogni parte. Non è tanto il sole che declina, innocuo e maestoso come un leone moribondo, arrossando i calcari di Gallizzi, quanto i pioppi, i noccioli, gli umidi canneti di Cafeci, i mandorli di Paparanza, gli olivi di San Francesco che vi portano sull’ali dei venti, per le strade spalancate come canali, questo refrigerio di verde e di vegetazione, questa rorida freschezza di cime e di valli, dove odorano secretamente gli origani e le nepitelle lungo i corsi d’acqua.

Si sentono cigolare sui cardini annosi i pesanti portoni, stridere e socchiudersi gli usci, arrotolarsi gli stoini: si fa largo, con tutti gli onori di casa, all’ombra che invade e refrigera fin gli ultimi recessi, gl’interni soffocati, al favonio gentile che s’intrufola dovunque, fuggevole e scherzoso come uno spiritello.

Delle finestre si aprono con un fracasso di liberazione, delle mani paffute posano sui davanzali le bombolette di terracotta piene di acqua a infrigidire, con la pezzuola bagnata intorno. Stirandosi pigramente i gattoni baffuti saltano giù dai giacigli, e dopo una meticolosa toletta a colpi di lingua vengono ai balconi a godersi anch’essi il fresco, acculati sulle zampe di dietro, impassibili, obliqui ed enigmatici come idoli.

Sull’origliere molle di sudore, il borghese acquoso apre di soprassalto gli occhi, reduce da un sonno nero e pesante come la morte, riafferra con una difficoltà vitrea e vertiginosa la realtà che gli vacilla da ogni parte, si attacca ai più impensati punti di riferimento, ai pretesti banali che l’inverosimile vita domestica gli offre, e finalmente risale sano e salvo a galla dai flutti acherontei che lo sommersero, finché sicuro del fatto suo non si ritrova come sempre saldo il letto sotto l’adipe, e sotto il letto il terreno. Attraverso gli scuri ancora chiusi, l’arioso, ombratile potere dell’ora gli lambisce la cotenna spugnosa e sudaticcia, lo irrora, la permea, lo spalanca come un edifizio, gli dà la prova del tre della sua corposità e del suo volume, e nell’ambiente che si velluta gli aspetti immemorabili del mondo che lo circonda gli ricadono sotto il controllo dei sensi con una brusca innocenza che li fa inattesi e primordiali. Dalle stalle alle cucine sente rinascere i segni della vita, nitidi e vicini come se ne avesse dentro di sé le scaturigini, sente crescere i suoni e i rumori, l’insegue con l’orecchio, li ferma, li scompone, beato di ritrovare pezzo per pezzo la sua vita, nel ciabattio della moglie o della serva in cucina, nel cicaleccio delle ragazze che si rimettono a nuovo, nel diavolìo che scatenano i ragazzi, non tenuti più in freno dall’obbligo del silenzio.

In calze scende ad aprire gli scuri e i vetri, e gonfio e irto di sonno come un porcospino affaccia quanto basta la testa per prendere contatto col risveglio della strada e del paese, con la carezzevole mollizie dell’ora, immediatamente rimesso in carreggiata col mondo, al corrente col fiume della vita.

L’ombra continua a montare fino ai tetti, dove sì e no restano pavide briciole di sole, eteree e cangianti al gioco delle brezze, cui qualcosa d’inaugurale e di prorompente danno di botto gli scampanii di ventun’ora. Prima è la Matrice, la capoccia della partita, la foriera di fasti e nefasti, che scatena con un tumulto d’oceano l’onda canora e feudale dei suoi bronzi, di cui con una felicità inaspettata fremono fino all’orizzonte gli azzurri, concavi spazi del cielo; e subito dietro, come trepidanti al medesimo slancio, tutte le altre le fan coro, da quella verginale e squillante di Sant’Antonino a quella chioccia di villana rifatta di San Liborio: fluttuante mare di suoni da cui alfine il paese emerge traspirante in una chiarità di perla.

Da ogni parte la vita risvegliata affluisce con un molle fervore di vacanza nella piazza, porto socievole e svagato, raso rissosamente dai voli labili e ricorrenti come ghirigori dei rondoni, dove i cani in voglia di ruzzare fanno combutta coi monelli, e i mendicanti lustrati come vecchi utensili siedono per diritto di prelazione sui bordi della banchina o sul sedile della Matrice, con le mani incrociate sul bastone o sulle stampelle. Sulla soglia delle botteghe il mercante e il farmacista, ancora assonnati e catastrofici, con le mani dietro la schiena, levano come bracchi le nari per annusare nell’aria le novità; gli sfaccendati assiepano come vespe i tavoli dei caffè e le porte delle società – Democratica, Cristiana, Cooperativa San Giuseppe, Unione e Lavoro – i bellimbusti fiammanti e piatti come farfalloni pigliano di mira i balconi con uno sguardo che dice alle ragazze, come il sorcio alla noce: « dammi tempo che ti buco!».

Ma questa è l’ora classica del Circolo: già da un pezzo l’inserviente ha messo in bell’ordine le sedie sulla banchina, a vari reparti secondo i crocchi che si formeranno, coi giornali nelle stecche a portata di mano; e lui stesso siede da canto con la pipa in bocca e uno sguardo di commiserazione all’umanità sottostante, sottolineato da frequenti schizzi di saliva.

I primi ad arrivare, ad uno ad uno come affiliati a una setta, con qualcosa d’iniziale e di restaurato nei volti, nell’incesso e negli abiti atavici, sono i grandi. di Spagna in disuso, gli statutari ingialliti dall’ozio e dalla prescrizione, quelli che vogliono essere i primi in qualche cosa almeno quando non c’è ancora nessuno prima di loro. Entrano con un passo di feltro, automatici e falotici, e assicuratisi che il campo è libero, subito assumono un’aria ispettiva, integerrima e responsabile, fanno il giro dei locali trovando da ridire su tutto, richiamandosi continuamente allo statuto, e uscendo finalmente per l’altra porta sulla banchina riversano su l’inserviente abbrutito da trent’anni di inonorato servizio il torrente delle loro recriminazioni accumulate, sotterranee e calamitose di padri coscritti che assistono alla rovina della patria. Per fortuna la banchina comincia ad affollarsi di nuovi venuti: man mano, riverniciati e sufficienti, entrano per la prima porta e immancabilmente riescono dalla seconda come riguardevali cucù di vecchi orologi, guardano un poco dall’alto della loro sibillina maestà l’universo, e infine con una specie di salto della morte si degnano di rituffarsi nel mare oleoso e immutato della vita abituale.

Allora gli statutari per la pelle passano in fretta e in furia in second’ordine, si fanno piccini piccini, fino a diventare quasi inesistenti e inosservati: seduti in disparte, come mummificati dall’interno cruccio, oleografici e decaduti, con una mano sul bastone dal manico d’argento, in posa antiquata tra di almiranti e di guardaportoni, si mettono a sfruconarsi il naso, astratti e misteriosi, come compiendo un rito orfico.

Intanto, mentre il cielo tramuta facendosi come più rado e deterso e si respira a larghi polmoni, le sedie vengono occupate, s’intrecciano i conversari d’uso, evasivi, protocollari e preistorici, sul tempo e sulle notizie fresche d’un mese, in cui tuttavia molti trovano la giustificazione della propria giornata; si formano i primi crocchi, dapprima occasionali e provvisori e man mano sempre più scelti secondo vaghe e pur vigenti sfumature d’interessi, di merito e di casta.

Sostenendo gravemente le loro pance come mappamondi, ecco nelle proporzioni locali i magnati del censo e dell’industria, gli agrari riconoscibili alla distanza albagiosa di gente usa a misurare il mondo ad are ed ettari, sempre in mostra di essere piantati a gambe larghe sulla distesa ideale dei loro feudi; persuasi e definitivi, dal cui labbro pende imperterrita la minutaglia civile e impiegatizia dallo sguardo e dall’animo di basilisco.

Paffuti e fatui come capponi, i galletti di razza, gli adoni feudali, i ricchi ereditieri, fatali, vittimari e navigati, che si trascinano dietro come una filza di fichi secchi i cuori butirrosi delle fanciulle da marito, sembrano portare in fondo alla pupilla sgargiante l’ineffabile peso dei trionfi amorosi; con una gamba sull’altra, suddivisi tra la segretezza e la pubblicità, squartano sull’altare del ricordo e del desiderio le veneri inveterate e immaginarie dei loro peripli; ed ebbri della carneficina, guardano le ragazze che passano o si pigiano ai balconi della piazza, sorridono con una lenta, rotonda soddisfazione di pavoni a sé stessi, quanto più irresistibili e bellicosi altrettanto facili a basire e a invischiarsi, imbambolati, buacci e quattrinosi, dietro la prima gonnella che faccia loro un po’ di vento sotto il naso.

L’ora culmina: la conversazione si vivifica, sollevandosi e sciabordando secondo i buffi del vento, gli àsoli della tramontana, come un cervo volante all’invisibile filo delle convenienze; delle falle umorose, irriflessive e suadenti di cordialità si aprono tra i vari crocchi, li allargano a ventaglio, li fanno convergere attorno al maggior centro d’attrazione. Un senso di civismo, di conciliazione e di connivenza si diffonde nell’aria: il grande di Spagna riaffiora reintegrato dall’inesistenza iperborea in cui s’era sommerso, il feudatario e il semplice civile si guardano nel bianco degli occhi con un sottinteso di familiarità remota, con una prossimità ancestrale ed egualitaria. Se non è l’ammazzasette che strabilia ed esilara l’uditorio con le gesta reali della sua immaginazione, generalmente è il dotto del circolo che, salito in cattedra per lo sfogo occasionale ed obbligatorio della sua scienza approssimativa, alla giornata e di palo in frasca, sparge intorno a sé il più ossequioso e soddisfacente pànico.

Dentro, i vecchi abitudinari che non sanno rinunciarci, messi del resto tra due correnti d’aria, ventilati e scalmanati, bussano, strisciano e battono a tutto spiano, scoppiando in senili mortaletti di rissa alla fine d’ogni partita; con fiumi d’epiteti invece che di sangue, che scorrono abituali e inconseguenti nel mare secolare dell’uniformità. Nelle sale interne, padroni e domini del campo, i ragazzi, inconsci perpetuatori della razza, sfogano alla lor volta in malestri e in schiamazzi le speranzose esuberanze, rifacendo punto per punto la vita dei padri; finché in un tumultuoso parapiglia non sciamano fuori a far gonfiare di legittimo orgoglio i petti paterni.

Si sente, lievi e giustificati, d’aver vissuto tutta la giornata soltanto per attendere, come una novità, come una grazia insolita e particolare, quest’ora che compendia le ragioni ideali del mondo, che chiarifica e motiva finalmente l’esistenza, rianima l’immoto flusso dei giorni, riattacca la morta gora dell’abitudine al canale della continuità.

Sotto, anche la piazza brulica e brusisce e dal marciapiede prospiciente, il presidente della Società Operaia, coi baffi attorcigliati minacciosamente, col sigaro dalla vivida bragia all’angolo della bocca, forte dei misteri della banca che amministra, lancia all’olimpo paesano occhiate discriminanti e pregiudiziali, che hanno il peso e l’inevitabilità delle cambiali in scadenza.

Prima di disciogliersi nel morbido gorgo della sera, il cielo ha una cruda pausa di luce, un fermo bagliore d’opale, in cui il paese, coi suoi sghembi e i suoi rattoppi, ha un livido risalto di cristallo. L’ala dell’avemaria, lenta e tremebonda, effonde il primo soffio della notte.

 

Francesco Lanza, Il Tevere, 22 ottobre 1928