SANTO VALENTI & C.

Quanto sono grandiosi gli spettacoli del vino illuminati dal solo interiore! Quanto vera e ardente quella seconda giovinezza che l’uomo attinge da lui! Dite in coscienza, voi giudici, legislatori, uomini di mondo che la felicità rende amabili e ai quali la fortuna rende facili le virtù, dite, chi di voi avrà il coraggio disumano di condannare l’uomo che beve genialità. (Baudelaire)

Se ogni paese, piccolo o grande, oltre a un proprio archivio e a un proprio gonfalone, avesse anche un proprio dizionario, in quello di Valguarnera alla voce Santo o Valenti si leggerebbe osteria e alla voce osteria si leggerebbe Santo o Valenti: a Carrapipi infatti quel nome e quel locale oltre a essere stati inscindibili erano, e sono, inequivocabili. Se poi si accomunava un qualsiasi individuo a quel nome si delineava, senza aggiungere altro, l’opinione che dello stesso si aveva: “chiddru bita na Valenti” oppure “chiddru è amicu di Valenti”, e poteva essere allusione, insinuazione, accusa, offesa e anche discriminazione; la reputazione di “quello” ne sarebbe uscita pericolosamente danneggiata, sottinteso che si trattava di un bevitore. Non esiste valguarnerese che non se ne sia servito al momento, o che non l’abbia sentito pronunciare per uso diciamo improprio, quando si parlava di ubriachi.

Se in taluni paesi andare in osteria a bere un bicchiere era come andare al bar e vi accedevano, senza tanti pregiudizi, dall’ultima ruota del carro (ossia il povero con la crosta) all’artigiano serio, dall’impiegato spocchioso, al proprietario pieno di sé, a Valguarnera la distinzione tra i due locali pubblici era netta, e ancora più netta, per non dire abissale, era la distinzione tra i rispettivi avventori.

Difficile vedere un frequentatore di Valenti entrare in un bar, e neanche a pagarlo a peso d’oro sarebbe stato possibile vedere un frequentatore di bar entrare da Valenti. Persino per cercare un parente o un amico, nel timore di essere scambiati per clienti, si utilizzavano i bambini: con due lire, ma anche gratis, si otteneva l’ambasciata.

Di osterie in paese ce n’erano un numero di gran lunga superiore rispetto ai bar: si andava dalle tredici-quindici dell’uno, ai due-tre dell’altro, ed altrettante, o poco più, le società politiche o di categoria; e poi il Circolo dei “nobili”, cosiddetto. Al Circolo non ce n’era per nessuno: unico ed esclusivo, riservato a una cerchia ristretta tra professionisti e possidenti, si andava per parlare di “cultura”, di politica e di donne; al bar si andava per prendere il caffè, il liquore e per leggere il giornale; nelle società si andava per giocare a carte, stare in compagnia e fare pettegolezzi ma nelle osterie non si parlava né di politica né di donne né di pettegolezzi; là si andava per scacciare i pensieri, bere vino, cantare, fare i tocca e probabilmente per dimenticare miseria, famiglia e moglie malata.

Le mogli dei frequentatori di osterie, infatti, erano più cagionevoli di salute di quelle che il marito lo avevano sobrio; se lo avevano astemio, salvo eccezioni, la salute era di ferro. Anche i figli, oltre ad avere la salute cagionevole come le loro madri, erano pure più numerosi dei bambini con il padre che nell’osteria non ci passava neanche di striscio.

Di fronte a tanta desolazione dunque, il bevitore quando usciva di casa, tra la farmacia e l’osteria senza esitare sceglieva quest’ultima, convinto di aver fatto la scelta giusta per uno come lui bisognoso di evasione e allegria. D’inverno poi, con freddo, pioggia e vento tagliente di tramontana, non c’era niente di meglio che scantonare in quel rifugio caldo e accogliente dove si respirava un’aria densa di fumo, odorosa di vino, tabacco da naso, legumi e robacotta.

La robacotta (trippa, zampini, interiora cotti insieme in un pentolone e venduta dalle macellerie) calda e fumante, era un piatto di eccezionale bontà, e nonostante in paese la fame e la miseria la facessero da padroni, i valguarneresi (ma solo in apparenza) si permettevano il lusso di denigrarla, mentre in privato l’atteggiamento non poteva che essere di apprezzamento, visto che di un piatto quantomeno saporito si trattava. La robacotta, ovviamente, non era mercanzia quotidiana ma settimanale: un panno bianco legato nei quattro angoli tra loro a forma di fagotto e appeso con un chiodo al muro accanto all’entrata della macelleria, era il segnale che il negoziante lanciava ai clienti per comunicare il via libera all’acquisto. Finita la merce spariva il panno. Se nel giorno canonico, il panno non faceva capolino, il motivo era uno, chiaro per tutti: l’intera quantità era stata prenotata e agli affezionati, delusi, non restava che aspettare un’altra lunga settimana per concedersela. Per comprarla si mandavano i bambini con il portamangiare. Innocenti e poco incriminabili, non correvano il rischio di venire bollati come gente che mangiava robacotta, e cioè poco fini, poco civili, anzi selvaggi. Consumarla era una parola; si doveva fare in modo che avvenisse in segreto come fossero stupefacenti, ed evitare che un probabile testimone potesse andare in giro a dire che in quella famiglia aveva visto mangiare robacotta.

Il fatto che fosse così buona e così discriminata dal galateo di Valguarnera, la rendeva appetibile come una popolana beddra purpusa che dal balcone stende la biancheria, si tenta di guardare l’orlo della gonna, si spera di ammirarne almeno il ginocchio e si vorrebbe divorare dalla testa ai piedi e dunque, la classe “elevata” (quella, per intenderci, che da Valenti non metteva mai piede) di tanto in tanto si concedeva una specie di scappatella, organizzando una serata da dedicare interamente alla robacotta, con una circospezione degna di spionaggio internazionale.

Per evitare che la cosa fatta in fretta si rivelasse come la gatta che fa i figli ciechi, si partiva con qualche settimana di anticipo e ogni giorno si aggiungevano particolari che dovevano perfezionare il programma, segretamente, passandosi la parola d’ordine, facendo riferimento alla serata come “ u survizzu”, accordandosi con occhiatine furtive e segni fugaci come per un incontro clandestino tra rivoluzionari. Assoluta omertà con parenti, amici e specialmente con mogli e madri: le donne erano pericolose, se si lasciavano prendere dall’ansia erano capaci di piantare una grana e far saltare tutto per il timore che qualcuno scoprisse, per vie traverse, il complotto, e intaccasse la dignità del figlio o del marito. Massimo segreto dunque se si voleva vivere la serata allegra e fuori dalle regole.

Si ritrovavano la sera a tarda ora, quando era buio fitto, da Valenti o in qualsiasi altra osteria, nella saletta o nell’angolo in disparte dove c’era tutto pronto, parlando a voce bassa, un po’ per l’ora e un po’ perché sentivano la coscienza un tantino infastidita.Trascorrevano così la “notte brava” nel piacere di affondare i denti nella trippa dal tessuto turgido e spugnoso, con la stessa voluttà di quando si addenta il seno caldo e vellutato di un’amante timida ma compiacente. Qualche bicchiere più del necessario faceva il resto e si ritornava a casa soddisfatti, gaudenti e la promessa di ripetere “l’operazione”

Santo Valenti in realtà si chiama Santo Scarlata, ma i carrapipani non amano puntualizzare, tanto è stato da sempre identificato come Valenti, (nome del nonno materno e “fondatore” dell’osteria) che molti, se non addirittura tutti, ignoravano il vero cognome, senza eccezioni nemmeno per il postino che si chiedeva: “Scarlata? e cu è Scarlata?”e magari rispediva indietro, anziché chiarire l’equivoco.

Chiamare Santo Valenti col suo vero cognome era quindi disorientativo, snaturalizzante, più o meno come chiamare u Chianu di l’urmi, col nome ufficiale di Piazza della Repubblica ou Chian’i buceri Piazza Lanza. Se si provasse a dire ad un valguarnerese “ci vediamo stasera in Piazza Lanza o in Piazza della Repubblica”, come minimo aggrotterebbe la fronte in segno di domanda per capire di cosa state parlando (molti non sanno nemmeno che sono i nomi ufficiali di queste piazze) e dopo, seccato, tipicamente direbbe: “E chi è! tutta a na vota tu nzignasti?”

Sicuramente qualcuno avrà tentato di dare a Cesare quel che è di Cesare, riconoscendo a Santo il suo vero cognome, ma è altrettanto sicuro che ci sarà stato qualcun altro che lo avrà scoraggiato subito: “Ma quale Scarlata e Scarlata!! Nui Valenti u sapimu a sentiri. Scarlata mancu si capisci!

Non avevano tutti i torti. Scarlata sa di farmacia, si addice ad un barbiere, ad un sarto, la mente doveva compiere uno sforzo per abbinare quel nome a quel locale: Valenti e solo Valenti era invece il sinonimo di butia du vinu, riconosciuta e integrata nel paese come la Chiesa Madre, il Municipio, il Canale e il Monumento; una vera istituzione.

Santo aveva intrapreso, con profitto, gli studi a Piazza Armerina ma alcuni fatti di famiglia lo hanno costretto a interromperli, e dunque si trattava di un oste istruito. Per questa ragione, forse, nonostante la sua vita trascorsa tra ubriachi buoni, cattivi, teneri o aggressivi, la sua personalità non è stata scalfita. il vino non lo ha né conquistato né disgustato e il suo atteggiamento nei confronti di questa bevanda è “comu machiamunnu”, cioè neutrale, equilibrato, quasi indifferente: beve il suo bicchiere a tavola come un comune mortale. Figura alta e di bell’aspetto, educato e di poche parole, più che un ex oste Santo sembra un ex professore in pensione.

Sugli avventori egli esercitava il potere di un padre di famiglia, e anche meglio di un padre riusciva ad ammansirli e a guidarli specie quando doveva interrompere un gioco che si faceva pericoloso o calmare una rissa sul punto di scoppiare dietro ad un bicchiere. Sapeva come comportarsi per tenersi i clienti perché capiva che se uno di loro avesse cambiato parrocchia avrebbe potuto trascinarsi dietro un intero gruppo. E questo nella sua carriera di oste capitò pochissime volte. Quando qualcuno che non pagava veniva espulso, lui non perdeva mai la fiducia: lo aspettava e il figliol prodigo tornava.

Mentre nelle altre osterie poteva succedere che il gestore si lasciasse coinvolgere a bere qualche bicchiere tra una chiacchierata e l’altra, Santo non si è seduto mai al tavolo con i clienti: invulnerabile, presente e rassicurante, i suoi clienti erano certi di poter contare in ogni momento sulla sua efficienza, e ciò li tranquillizzava.

Senza dubbio questo comportamento di Santo faceva sì che la sua osteria sembrasse la più “in” e la posizione o Chian’i buceri favoriva questa convinzione.

Se i clienti di altre osterie sembravano (ma non è detto che lo fossero davvero) più malvestiti, più vecchi e malandati, i clienti di Santo sembravano (ma non è detto che lo fossero davvero) più ordinati quasi più benestanti, tanto che l’ubriaco di Valenti non sembrava l’ubriaco qualunque, forse perché da lui non si poteva andare con le scarpe rotte e gli indumenti rattoppati. Dov’era situata l’osteria, entrare e uscirne voleva dire attraversare la piazzetta che allora era il centro commerciale di Valguarnera. Brulicante di negozi e di gente dalla mattina alla sera, visibile da tutte le angolazioni, chi andava da Valenti doveva essere un bevitore convinto e conclamato, pronto a riconoscerlo e ad assumersi la responsabilità senza scuse e senza targiversamenti: non poteva insomma frequentare Valenti e fingere di no. Una prima volta poteva sperare che apparisse un caso, una seconda faceva sorgere il sospetto, una terza spariva, con soddisfazione dei maligni, ogni dubbio.

Anche rasentando i muri nell’inutile speranza di sfuggire all’attenzione (non tanto per entrare, ma molti lo facevano all’uscita) non c’era scampo.

Questo inconveniente nulla toglieva all’attrazione che l’osteria esercitava su coloro che avevano il vizio del vino, piuttosto l’arricchiva di quel proibito che dà fascino anche alle cose che altrimenti non l’avrebbero. Al massimo costringeva le mogli a mandare i mariti più sistemati, onde evitare che di loro si dicesse: “chiddru bita na Valenti” – e si aggiungesse – e va nannu come un spiddrizzatu”: la prima colpa si imputava al marito, la seconda a lei. Impegnandosi un po’ poteva sperare che del coniuge si dicesse “Chiddru bita na Valenti, ma va nannu comu u specchiu”; un terzo di faccia era salva.

Santo Valenti, nome che evocava un luogo di spensieratezza e oblio, dove i frequentatori si sentivano a proprio agio più che in casa con la famiglia perché si sa, il cliente di Valenti non aveva vita facile nei rapporti personali. Se la moglie si ammalava facilmente (reazione normale di un organismo in continuo disagio) i figli, da piccoli si ammalavano, da grandi si vergognavano. Fior di ragazze e ragazzi con il padre frequentatore fedele di Valenti, sono stati penalizzati pesantemente dalla società quali discendenti a rischio: “E si rinesci comu a sa pa?”

Un figlio maschio poteva sfuggire a quei pregiudizi emigrando o dimostrando col comportamento e la serietà di non assomigliare affatto al padre e anzi, prendendo le distanze da lui, la femmina che quelle distanze non poteva prenderle, restava a figghia du mbriacu con una chance in meno rispetto a tutte le altre. Per questo il bevitore era considerato la pecora nera della famiglia e persona inaffidabile sotto tutti gli aspetti. Poteva capitare che in un momento di perfetta lucidità esprimesse un’opinione, un giudizio, o fosse capace di fare una proposta, ma per quanto saggia o intuitiva potesse essere, non veniva mai presa in considerazione poiché veniva da uno che beveva e dunque da uno che nan cunta nenti. Di lui si diceva infatti:“Omu di vino, ogni centu va un carrino” (carlino, antica moneta di scarso valore).

Più era incompreso e più frequentava Valenti, più frequentava Valenti e più era incompreso. Il discredito che circondava il bevitore aveva ripercussioni anche sulla sua salute. Se accusava mal di stomaco o disturbi intestinali, la diagnosi era facile e scontata per tutti: nessuno aveva dubbi e nessuno si prendeva la briga di cercare una causa che non fosse legata al vizio di bere: “Pi forza! Cu tuttu su vinu chi si bivi, u stomucu ch’ava essiri di ferru?Ast’ura l’avi tuttu sfattu!”.

Stesso concetto si aveva del mal di testa, dei capogiri o della pressione bassa: era sempre il vino che gli portava i disturbi. Così per il mal di schiena, di gambe, di spalle: la colpa era sempre di quel maledetto vizio. Se si procurava un livido scivolando, era colpa del vino che gli aveva impedito di vedere bene dove metteva i piedi, e se il bevitore chiariva che gli era successo di mattina presto, voleva dire che non aveva smaltito del tutto la sbornia della sera prima. Se si trattava di raffreddore e febbre, gli si rinfacciava: “E certu! Quannu nesci di na butia cauru cauru , mbriacu comu iè nan capisci nenti, basta tanticchia di aria e si carpa a nfruenza”. Non si faceva eccezione neanche per il foruncolo, l’eczema o l’orzaiolo. Era sempre causata dal vino che ormai gli aveva guastato il sangue.

Dinanzi al bevitore malato non c’era mai discordia: familiari, parenti, amici e nemici concordavano armoniosamente (solo in quel caso) nella diagnosi e naturalmente nella terapia che non poteva essere che l’unica giudicata all’unisono la più logica e la più efficace: smettere di bere. Anche i medici non si distaccavano molto da quella posizione e se al paziente sobrio con gli stessi disturbi veniva controllato il cuore, i polmoni, la pressione e la lingua, al paziente bevitore sì e no gli veniva rilasciata una ricetta, (tanto per non far vedere di essere andati fino là a vuoto) con la conclusione che la diagnosi e la terapia pronosticata dai profani veniva confermata anche dall’esperto: niente vino

Eppure il malato sperava che almeno il dottore fosse probo, un tantino solidale, e chiarisse che il vino non c’entrava niente, che il male, (lui lo capiva) era di natura diversa. Sperava fino all’ultimo che l’uomo di scienza gli venisse incontro e smentisse, una volta per tutte, dichiarando che pur essendo un bevitore era un uomo come gli altri e i malanni lo colpivano alla stessa maniera di tutti gli uomini della terra. Detto dal lui non aveva alcun credito, ma detto da un medico, che capiva i mali più di chi li aveva, sarebbe stato oro colato.

Tradito anche da colui che avrebbe dovuto essere super partes, davanti a tanto isolamento e tanta convergenza di voci, il poveretto a volte faceva un debole quanto inutile tentativo di difesa, ma il più delle altre vi rinunciava chiudendosi nella sua frustrante solitudine.

Mentre al malato qualunque veniva riservata un’assistenza continua e amorevole da parte di moglie, figli, sorelle, nipoti e amici, pronti e prodighi a fargli visita affinché non gli venisse a mancare conforto e consolazione, al malato bevitore, ritenuto il solo responsabile dei suoi mali, (e non solo di quelli) la malattia gli veniva fatta sentire come una punizione, come una conseguenza che prima o poi sarebbe accaduta a lui e a tutti coloro che avevano quel vizio. Avrebbero voluto che gli servisse da lezione per smettere di bere e ritornare finalmente a essere un cristianu comu tutti l’autri.

La famiglia, speranzosa e sadica, per prima cosa gli toglieva anche il mezzo bicchiere durante i pasti, e il risultato non poteva essere che quello di vedere il paziente scivolare lentamente e inesorabilmente in uno stato di depressione che lo rendeva taciturno e malinconico.

Finita la convalescenza, voleva e doveva cambiare aria, e non c’è bisogno neanche di dire che la sua prima tappa era Valenti, dove gli veniva offerto dai compagni un bicchiere in segno di bentornato, oppure lo chiedeva lui, sicuro del fatto suo, senza esitazione. Già dai primi sorsi avvertiva una sensazione di caldo benessere. Incoraggiato da quel risultato e incurante di ciò che sarebbe successo una volta tornato a casa, egli alzava la dose di giorno in giorno (ma c’era anche chi la alzava in un solo giorno) fino a raggiungere quella necessaria al suo bisogno, ottenendo risultati immediati ed eccellenti (più e meglio di medicine meditate e improvvisate): quelli appunto di sentirsi meglio e anzi guarito. Ritornava finalmente alla sua vita normale di bevitore e ai familiari, inviperiti per il fallimento della loro aspettativa, non restava che aggrapparsi alla speranza di sempre: “Chi ci quagghiassi u sangu!”

L’attrazione per quell’osteria era superiore alle maldicenze delle loro mogli che forse per vendicarsi, calunniavano Valenti di rubare i soldi vendendo ai suoi clienti il vino “battezzato”; da cosa lo capissero resta un mistero. Un conto era accusare un qualsiasi commerciante di rubare sul peso perché la merce era suscettibile di verifica, o come per la venditrice di carbone che aggiungeva le pietre al mucchio e poi uno se li trovava quando accendeva il fornello, altro era affermare che Valenti desse il vino annacquato ai clienti, che per quanto probabile restava impossibile da provare.

Non si soffermavano, invece, a riflettere che Santo, ammesso che aggiungesse davvero acqua al suo vino, e del resto non sarebbe stato un vero oste se non lo avesse fatto, così facendo, oltre a salvaguardare la salute dei suoi clienti, considerava anche che il vizioso che si scolava un litro di vino “vergine”, non sarebbe più riuscito ad alzarsi dalla sedia, e la cosa poteva creare non pochi inconvenienti, mentre la quantità di acqua in quello stesso litro, smorzando gli effetti dell’alcool, permetteva al bevitore di essere sufficientemente pieno e nello stesso tempo in grado di usare le proprie gambe per tornare a casa. Non era poco! Ma poi Santo sapeva anche essere irremovibile, negando al soggetto, che si rifiutava di smettere, di oltrepassare un certo limite: il rischio che non riuscisse ad alzarsi più dalla sedia era sempre in agguato, e lui sapendolo, lo scongiurava.

Qualche moglie insofferente, non potendo impedire al marito di andare all’osteria, tentava di impedire all’oste di riceverlo:

“Signor Valenti, mi ni fazzu di lei che nan ci dici nenti! M’ava fari u fauri chi quannu vidi a ma maritu chi sta iurnati sani ca intra, l’ava mannari”

– “ Mannari? Signù, semmai a sa maritu iu u spittu. Nan’è cu chiamu iu! Iddru veni, mi dumanna u vinu, mi paga e iu ci u dugnu!”

Non occorre dire che Santo ne ha viste di cotte e di crude; nella sua osteria sono passate generazioni di ubriachi sporadici, ubriachi dilettanti e ubriachi incalliti. I primi che si concedevano il brivido della sbornia sperando di godersela a lungo, e poi non riuscivano a resistere neanche fino a casa vomitando negli angoli delle strade buie affinché nessuno li scorgesse, visto che vomitare per un bevitore, era più disonorevole del bere stesso. I secondi che si sarebbero ubriacati più spesso se non avessero avuto paura delle mogli, e infine gli incalliti, con alle spalle una vera e propria tradizione di famiglia, iniziati da padri e nonni: questi la sbornia se la smaltivano lentamente, assaporando i fumi dell’alcool grado dopo grado, per ore e ore, e per notti intere. Al mattino avevano la loro bella voce rauca, la bocca impastata e gli occhi arrossati all’altezza del rango cui appartenevano; se tra loro c’era quello che, al mattino dopo, non riusciva neanche ad andare a lavorare per via degli strascichi della sera prima, quello era senza dubbio il purosangue.

Ubriachi altruisti e solidali tra loro, tanto che se uno si accorgeva che il compagno non era in grado di affrontare da solo la strada verso casa, lo prendeva strettamente sottobraccio e lo accompagnava sorreggendolo (e sorreggendosi) affettuosamente. Durante quel viaggio, fossero stati estranei o semplici conoscenti, tra i due si instaurava un rapporto di vera e sincera amicizia, priva di ipocrisia e inganno, impossibile tra individui astemi e “dignitosi”. Potevano formarsi coppie tra onesti e disonesti ma una questione di stupida morale non avrebbe interrotto l’ebbrezza che li invadeva. Quel tragitto, stretti uno addosso all’altro, li confortava come bambini abbandonati fiduciosi e sereni sul grembo amorevole della madre. Estraniati dal mondo che li circondava, avvolti in un’atmosfera confusa e ovattata, si confidavano stralci di segreti dolorosi, delusioni mai confessate, in condizione di lucidità, nemmeno a se stessi e ognuno seguiva, per proprio conto, la traiettoria interiore di sogni infantili irrealizzati e irrealizzabili: nessuno dei due era in grado di ascoltare l’altro, ma non accorgendosene non potevano dolersene. Il più fragile, piagnucolava per sentire quella consolazione e quella tenerezza che qualche pallido residuo aveva lasciato ai tempi remoti della prima infanzia..

Nell’attimo in cui si dovevano separare, poteva succedere che l’accompagnato, accorgendosi che l’accompagnatore era sbronzo più o meno come lui, sentiva venir meno il coraggio di lasciarlo in balia della notte: dunque si offriva, con slancio, di ricambiare la gentilezza e l’altro, che non aveva la forza di imporre un rifiuto, accettava docile e riconoscente. Ma siccome succedeva regolarmente che sbagliavano strada, e anche porta, lo scambio di cortesia diventava una procedura lunga, fino a che, nel frattempo aiutati dal fresco della notte, la sbornia veniva smaltita e ognuno trovava la propria strada.

Quando si incontravano, da persone “normali” il pudore aveva il sopravvento: se potevano cambiare vaneddra per non doversi guardare e salutare, lo facevano senza indugi. L’uno diventava il testimone “scomodo”, (nella vita “civile”) dell’altro e perciò era più opportuno non ravvivare il ricordo di circostanze che tanto facevano vergognare la famiglia.

Ciò che angosciava, sopra ogni cosa, il bevitore, era ciò che poteva aver detto, o fatto, durante il suo “viaggio”; sentiva il rischio di diventare bersaglio di chiunque volesse inventare anche un’infamia per farlo sentire un verme e lui, non avendo l’arma della memoria ad aiutarlo, non avrebbe potuto difendersi, né smentire: ascoltava quelle accuse con la testa bassa, impaziente di uscire di casa, scrollarsi i sensi di colpa, tornare nel “covo” e ricadere nel suo cerchio (chiuso si, ma liberatorio).

Santo Valenti poteva osservare i suoi clienti facilitato dalla condizione di titolare: vigile e attento, di ognuno conosceva, oltre che debolezze e virtù, anche situazione familiare ed economica, e non gli sfuggiva quando l’ubriaco povero, non potendosi pagare il bicchiere, faceva da giullare raccontando barzellette al vicino di tavolo, e spesso con un ottimo risultato: il vicino, divertito, gli dava una pacca sulla spalla e riempiendo il bicchiere glielo porgeva come un regalo: té, bivi!

Chi non sapeva raccontare barzellette, per riuscire ad avere qualche bicchiere gratis, si offriva volontario ad accompagnare il pensionato invalido che, essendo pensionato invalido (se era grande invalido veniva considerato un mecenate), poteva non solo bere tutto il vino che voleva, ma offrirlo a chiunque gli ispirasse simpatia (molti si sarebbero accecati pur di avere quella pensione e vivere beati senza paura del domani).

Il pensionato invalido, per istinto umano e irrefrenabile, era più invidiato del ricco proprietario dato che i soldi li riceveva senza muovere un dito fino alla fine dei suoi giorni ed egli, d’altronde, non faceva mistero della sua rendita anzi, era l’argomento che più preferiva e conosceva, riferendo ogni particolare della sua invalidità, il punteggio e l’iter medico-burocratico che era stato necessario per ottenerla. Parlava con più spavalderia del proprietario terriero, da vero privilegiato dalla sorte, sicuro della sua appartenenza a una categoria (l’unica) che poteva dormire sonni tranquilli e profondi con un mensile così sicuro e così puntuale che salute o malattia, pioggia o neve, alluvione o siccità, non avrebbero (neanche messi insieme) variato di una lira la sua manna. Non lavorando, passava le giornate tutto casa e osteria (più osteria che casa), ma non essendo autosufficiente, gli occorreva qualcuno che gli permettesse di fare la spola tra l’una e l’altra. Per questo, volontari che si prestavano spontaneamente non ne mancavano: si garantivano così di “sbarcare il lunario”, non della sopravvivenza, ma quella più difficile del mezzo litro, dose minima giornaliera, richiesta dal loro vizio, o sfizio. C’era anche quello che non potendosi guadagnare la quantità con le barzellette, e se poi si faceva vedere in giro sottobraccio all’invalido ubriacone, a casa doveva fare i conti con la moglie, si sistemava vicino alla conca e aspettava paziente di essere ricordato per amicizia o per pietà dai compagni: speranzoso e testardo, capace di trascorrere l’intera giornata da Valenti senza consumare una sola goccia di vino, spesso si accontentava del profumo, della compagnia e del caldo gratis. Sempre meglio di stare a casa con la famiglia povera e numerosa e la moglie malata, ostile e pitiniusa.

In paese non esistono più osterie, l’antica bevanda degli dei non ha più né fedeli né proseliti: gli anziani comprano l’uva, la portano nel parmentu, riempiono la botte anonima nell’angolo del garage e bevono il mezzo litro a tavola con il consenso della famiglia, senza superare la dose, dignitosamente, squallidamente, privati di quella poesia che solo l’osteria, poco illuminata ma intima, angusta ma complice, sapeva offrire.

I giovani frequentano i bar e nel bisogno di una compagnia per scordare gli affanni, anche nella “globalizzata” Valguarnera, il vecchio bicchiere è stato sostituito brillantemente dall’amaro, dalla birra, dalla Coca Cola e, ancora meglio, dalla trasgressiva e attraente canna.