APPUNTAMENTO AL BUIO

E chi riusciva mai a dormire quella notte? I quarti d’ora si rincorrevano all’orologio della Chiesa Madre, ma quello tanto atteso era sempre in ritardo. Finalmente il fischio soffocato di Turi, quasi ultrasuono, mi veniva a cercare a cinque minuti alle quattro – già da dieci ero appostato alla finestrella della soffitta. “Ssssst, ché svegli quelli di casa!” pensavo tra me e me. Ma quel fischio, dopo anni di esercizio, potevo udirlo io solo, e i cani, naturalmente, ché non riuscivo a tenerli a bada. E così, alle quattro in punto aveva inizio la nostra discesa, a confondersi con quella vecchia di secoli dei contadini di quella parte della Sicilia dove tornavo ogni anno per le vacanze.

Venivano giù, i muli, per le strade scoscese del paese, a ritmo cadenzato sui lastroni di pietra lavica, accompagnamento a lungo preparato per i nostri freschi pensieri sullo spartito dei secoli. Se lo zoccolo coglieva il centro della pietra, la nota era appena punteggiata, se invece capitava sulla congiunzione tra due lastre, era allungata a scivolo, come quella del bandoneòn di un tango argentino.

Era per me una cara consuetudine ritrovarmi ogni anno verso la metà di agosto, sotto una cupola stellata di paradiso a condividere con altri cacciatori la marcia quotidiana dei contadini che andavano al lavoro. Scendevano dalle loro case a piedi verso la campagna, tirandosi dietro gli alti muli solenni, carichi ognuno di un aratro a chiodo, il vomere, in bilico sul basto, e la bure*, che, essendo molto allungata, strusciava sul selciato provocando un rumore continuo, sottofondo originale al ritmo della discesa.

In questo particolare periodo dell’anno, che coincideva con l’apertura della caccia, ai soliti contadini si venivano a mescolare i cacciatori, gente del luogo oppure oriundi come me, richiamati dalla nostalgia di tempi e luoghi, o emigrati nel Nord Italia o in Francia, Germania, Belgio, ritornati in occasione della festa del Patrono. San Cristoforo era celebrato proprio il 25 di agosto con alcuni giorni di festeggiamenti, però questa era una data locale, non contemplata dai calendari, ma spostata a furor di popolo, perché dopo le fatiche estive segnava una pausa prima della ripresa dei lavori agricoli.

Erano ritornati gli emigranti, a bordo di possenti auto tedesche, lustre fiammanti anche se di seconda mano (ma a saperlo erano loro soli), con una piccola decalcomania tricolore sotto la targa, quando a quell’epoca le persone più in vista del paese possedevano una Fiat 600 o, al massimo, una 1100. Per chi tornava, la caccia era una scusa per riappropriarsi dei colori, gli odori, la parlata del paese, sognato e rivissuto nel ricordo per tutto un lungo anno di esilio. La discesa lungo lo stradone, quell’unica “trazzera”, era, per i contadini, il solo momento della giornata nel quale socializzare, prima di disperdersi ognuno per la stradella che portava alla sua campagna. Così si intrecciavano i vari conversari, sotto il cielo ancora nero, che pian piano si faceva blu pervinca bianco, finché i raggi del sole non filtravano gloriosi fra le asperità delle colline, a giocare guizzando nel mezzo delle buri ondeggianti ad ogni passo.

I contadini parlavano dell’annata trascorsa, dei decessi più recenti di cristiani, bestiame e cani, del raccolto, della siccità che pesava sullo sviluppo dei fichi d’India, che, in quella stagione, costituivano insieme al pane la loro colazione del mattino. Gli argomenti di conversazione dei cacciatori erano naturalmente di tutt’altro genere: il terreno di caccia, le virtù miracolose di certe cartucce fabbricate a Milano, Torino, o all’estero, che però, se avveniva una mutazione di tempo, perdevano improvvisamente tutte le loro qualità sterminatrici ed erano buone soltanto per l’immondizia. I cacciatori locali, senza parere, erano in religioso ascolto, perché a quei tempi le cartucce erano soliti caricarsele da soli. E poi c’erano altre enormi e pittoresche balle che ogni cacciatore che si rispetti dissemina nei suoi discorsi, come le dimensioni della selvaggina abbattuta in altre cacciate,- per cui una quaglia era grossa come una gallina, le pernici come coffe (panieri), “o liebbru” [valg.: “u ljbr”, ndr] (la lepre) come un ciavarieddu [valg.: “ciavarjdd”, ndr] (capretto) – e le prodezze di quelle tali cartucce che, a distanze siderali colpivano un coniglio grosso come uno scieccu [valg.: “scèccu”, ndr] (somaro), il quale cascava “lampato” [valg.: “lampàt” (fulminato), ndr], oppure “vittimo e fetuso di settecento anni” [valg.: “vìtt’ma e f’tùs r setcentànn” (stecchito, come se fosse morto da molto tempo), ndr].

Ma in quei giorni di fine agosto c’era qualcosa in più che stimolava a storie speciali. Infatti i giovani emigranti, dal loro piedistallo di moderni lavoratori nelle metropoli continentali, davano il via a racconti strabilianti, discutendo tra loro a voce alta, nell’intento di stupire i locali, prendendoli in giro, – ma questi ultimi, mangiata la foglia, non si dimostravano da meno.

“Cumpà, leggevo sul giornale che, quando scoppia la bomba atomica c’è l’onda diretta e 1’onda retròclita, una va e l’àutra vène, e quanno si cumogghiano distruggono tutte cose. Dove dobbiamo arrivare con questa scienzía!”. Un momento di silenzio assoluto: i destinatari della notizia stavano ancora in ascolto. A questo punto interveniva un secondo provocatore: “Dove dobbiamo arrivare?! Ci stiamo già. Io sentii dire che ci misero un filo tra i ccorna di un tauro e poi ‘a lettrica ‘nt’ ‘a coda, e sott’a panza se sentiva ‘a rradio!”. Silenzio, tra l’uditorio. Poi qualcuno dei locali, avendo capito dove erano diretti i cacciatori, così insinuava: “Diceno che nel vallone di Rossomamo ce sta ‘na culovria (colubro, serpente) che quanno vede i cani, li talia (guarda) negli occhi. Quelli si fermano come statue e chiddi ci si inturcinano attorno e ss’i mangiano!”. Poi qualcun altro, scrutando il cielo sentenziava, ridendo sotto i baffi: “Per oggi si prevede una mutazione di tempo!”.

Caro mio piccolo mondo antico, popolato da gente semplice, ma tenace, laboriosa, dignitosa, frugale. Alle volte si rinunciava persino a sparare ad una quaglia per risparmiare un colpo, ché le cartucce erano destinate a prede più consistenti, come lepri, conigli, pernici, che le mogli dei cacciatori riuscivano a trasformare in succulenti pasti festivi. A quei tempi persino le bottiglie vuote

erano religiosamente conservate, di anno in anno, pronte per l’uso al tempo del vino e delle conserve. Poi, pian piano, avvennero impercettibili cambiamenti finché l’aratro a chiodo fu sostituito dal trattore; San Cristoforo fu dichiarato mai esistito – ma non per questo se ne abolì la festa e gli furono negate preghiere e candele -, le botteghe assunsero un’aria “cittadina”, tutte alla stessa maniera.

Ma ciò che più mi fece impressione fu un episodio impensabile fino a qualche anno prima: un cacciatore, a fine merenda, lanciò in aria una bottiglia, prese la mira e sparô.

E fu così che quella bottiglietta di Coca-Cola che saliva nell’azzurro per ricadere in frantumi dal cielo fu per me il segnale inconfutabile che un’epoca durata secoli era definitivamente tramontata e che ci stavamo irrimediabilmente proiettando nella civiltà dei consumi.

(da “Stalattiti di cristallo”Nuova Impronta Ed., Roma, 2007)

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* bure: Il timone dell’aratro, cui è attaccato anteriormente il giogo. Valg.: “iwgh”.