CACCIATORI DEL MIO PAESE

         Ogni sera, al mio paese, a una data ora, nelle farmacie e in certi caffè specializzati si sentono dei continui colpi di fucile: sono i cacciatori che ammazzano a tutto spiano lepri e conigli, quaglie e pernici. La carneficina non finirebbe mai più, tanta è la passione che li anima. Per fortuna, le cartucce non possono durare in eterno: lentamente i colpi si fanno più radi, si estinguono, e ognuno se ne va soddisfatto a dormire, rimandando il seguito all’indomani.

         I più bravi si rimettono a sparare nel sonno, e ne san qualcosa le povere mogli che ogni momento devono alzarsi in camicia per raccogliere ora questo ora quel pezzo di caccia. La mattina dopo, il letto si trova pieno di selvaggina, e averne ammazzata tanta senza neppure saperlo è veramente una bella soddisfazione.

         Contrariamente a quanto si potrebbe credere, tutte queste sparatorie non mettono mai a soqquadro il paese: i carabinieri continuano a passeggiare con 1’incudine napoleonica sul capo o sotto il braccio, e nessuno, che non sia dell’arte, se ne dà per inteso. Trattandosi di cacciatori, esse riguardano soltanto una certa categoria d’innocenti bestiole, le quali, poverine, hanno un bel da fare per farsi continuamente ammazzare, e non sanno come meglio accontentare tanta brava gente.

         Il cacciatore va a caccia per la caccia, per il gusto di scovare la selvaggina, di sparare e di farla cadere senza mai fallire un colpo. Se non fosse per vedere gli effetti del piombo e per la soddisfazione del caso, egli per non perdere tempo non raccoglierebbe neppure i pezzi di caccia abbattuti, dei quali abitualmente non sa che farsi: la loro carne non gli piace, nessuno a casa sua ne va pazzo, e gli parrebbe di degradarsi vendendoli. Gli servono soltanto per farne qualche volta un presente agli amici: ma ogni cacciatore ha almeno una cinquantina d’amici che aspettano ancora questi famosi futuri, di regola a Natale e a Capo d’anno.

         Il vero cacciatore non fa altro che sparare e trucidare, specialmente quando non ci sono testimoni oculari. È più facile che ammazzi due conigli facendo finta di sparare che sbagliarne uno solo appena lasciato partire il colpo; e non si capisce perciò come con tanti cacciatori in giro, che sparano e ammazzano senza perdersi mai d’animo, ci sia selvaggina che basti, e come ancora conigli, lepri, pernici e compagnia bella si ostinino a restare sulla terra. Spesso accade che quando parecchi sono a caccia insieme, ora l’uno ora l’altro sbagliano con molta facilità il colpo: per chi ha sparato non c’è dubbio che la colpa è della polvere e della carica, sensibilissime all’afa, al vento che spira, all’altitudine e via dicendo, ma gli altri non la bevono mai e sanno benissimo a chi attribuirla, salvo s’intende a far proprie le identiche ragioni quando a turno è la loro volta di fallire il colpo. Ne nascono infinite e vivaci discussioni, a tutto vantaggio della selvaggina, compresa quella già ammazzata e stivata nella carniera, la quale visto il momento propizio se la squaglia allegramente all’inglese.

          Molti cacciatori del mio paese partono ogni anno per famosi luoghi di caccia, dove la selvaggina è come le mosche, solo per aumentare il numero delle proprie vittime e battere il record, il quale così non è mai detenuto da alcuno. L’anno scorso due miei amici sono andati apposta perfino in Tripolitania, armati fino ai denti, e dopo una settimana sono tornati con duecentotrentaquattro tra lepri, conigli e pernici di più sulla coscienza, senza contare le frazioni e i rotti. La impressione fu catastrofica tra la selvaggina locale, ma per fortuna non appena la notizia si diffuse si seppe per la verità storica che in realtà i morti non avevano superato la dozzina. Ci fu un respiro di sollievo.

          – Può anche darsi – arrivarono ad ammettere con un po’ di sforzo i miei amici – ma questo non dice niente, perché dove siamo stati ce n’erano tanti di lepri e conigli, che se avessimo avuto tempo e volontà non duecentotrentaquattro ma ben duemiladuecentotrentaquattro ne avremmo potuto uccidere, e non ci sarebbe stato nulla di straordinario soprattutto per noi.

          Tutto questo è perfettamente esatto, perché un cacciatore che si rispetta non si vede ai fatti, ma a quello che sarebbe capace di fare, e in quanto ai miei due amici c’è piuttosto da meravigliarsi come mai non siano tornati dalla Tripolitania con una dozzina di leoni sulle spalle.

          Dal cacciatore per eccellenza che abbiamo descritto si distingue a occhio nudo il cacciatore di mestiere, che di una passione, d’un’arte pura quale è la caccia, fa un calcolo ignobile, un motivo di lucro. Egli se ne va sempre solo, misterioso e guardingo, come uno che abbia in animo di commettere una cattiva azione, senza quell’apparato rumoroso e pittoresco che rende così suggestivi, alla partenza e all’arrivo, gli altri cacciatori; e la sera, dopo che è tornato can la stessa aria di quando è partito, si vedono penzolare per le zampe all’architrave di certe botteghe due o tre capi di selvaggina col cartellino del prezzo appuntato a un orecchio o a un’ala.

          Non c’è dubbio che il cacciatore di mestiere sia il più bravo tiratore del paese, cui nessuno può mettersi alla pari, ma è altrettanto certo che se egli ogni volta che esce arriva ad ammazzare due, al massimo tre pezzi di caccia, è già abbastanza. Il fatto è che la selvaggina non ha affatto simpatia per il cacciatore di mestiere e dev’essere proprio una disgrazia che vada a cadergli sotto tiro: essa lo subodora a cento miglia di distanza e lo fugge come un appestato, e piuttosto che lasciarsi cogliere da lui, preferisce correre in massa a farsi trucidare dai cacciatori passionali, dai quali se non altro la morte acquista qualcosa di pindarico e di mitologico.

          Fra le molte varietà di cacciatori che ci sono al mio paese, c’è il cacciatore che ammazza sempre della selvaggina e non riesce mai a trovarla, e il cacciatore che non ammazza mai selvaggina, ma in cambio trova immancabilmente quella ammazzata e non trovata dall’altro. Generalmente il primo è un cacciatore di colombi selvatici: ogni giorno, sull’imbrunire, egli se ne va nei pressi del vecchio convento alle porte del paese, si apposta dietro un mucchio di pietre, e col fucile spianato aspetta i colombi che tornano al nido. A ogni stormo che viene egli lascia partire i due colpi del fucile: sicuro del fatto suo corre a raccogliere i caduti, ma ogni volta ha voglia di cercare, non gli riesce mai di trovarli. Quando finalmente si é stancato e si persuade che non c’è altro da fare, se ne torna in paese con una filza di bestemmie fra i denti. L’indomani mattina, il secondo cacciatore, senza sbagliare di tanto, col suo bravo fucile sulla spalla se ne va a sua volta a caccia. Manco a farlo apposta non gli riesce mai d’incontrare neppure uno sgricciolo, di sparare a una lucertola. Quando finalmente ne ha abbastanza, egli prende la via del ritorno, e immancabilmente, nei pressi del vecchio convento, gli capitano tra i piedi i colombi ammazzati dal primo la sera avanti. Egli, che se l’aspettava, li raccoglie alla chetichella, li mette nella carniera, e rientra in paese con un’aria mefistofelica e sorniona che fa montare su tutte le furie l’altro cacciatore mosso alle vedette.

          C’è poi il cacciatore di volpi, il quale si distingue dagli altri perché le volpi si lasciano ammazzare soltanto da lui, e le signore del paese sono sempre in attesa delle magnifiche pelli, che egli promette continuamente senza lesinare.

          Ma il tipo più interessante è il cacciatore che passa per tale perché ha dei cani da caccia. Egli ha il fucile soltanto per essere in carattere perché non si degna mai di sparare un colpo. Se vuole può starsene comodamente sdraiato nella sua poltrona, e i cani gli portano la selvaggina fino ai piedi senza che egli si scomodi. I suoi cani famosi, dai quali si fa sempre seguire in piazza, al caffè, al circolo, lo rendono una potenza, un cacciatore formidabile del quale non si può fare a meno nelle grandi partite di caccia. Tutti lo cercano e lo temono, la ascoltano come un oracolo: quando si ha bisogno di averlo della partita si va a prenotarlo un mese prima. Con lui bisogna misurare sempre le parole e non perdere mai d’occhio le distanze: non tanto per lui, quanto per i suoi cani che sono terribilmente suscettibili e capacissimi di lasciarvi in asso sul più bello.

          Questa dei cani da caccia meriterebbe una descrizione a parte, tanta è l’importanza che ha. Senza tema d’errare si può dire che basta un cane per fare un cacciatore.

          Ogni cacciatore che si rispetti deve averne non meno di uno, e si può essere sicuri che quello è il primo cane della terra. Al mio paese i primi cani della terra sono almeno un centinaio. Taluni asseriscono che il cane assomiglia al cacciatore, del quale rivela l’animo, il valore e finanche i tratti fisici più caratteristici; invece è tutto al contrario: è il cacciatore che assomiglia al proprio cane. Voi potete benissimo conoscere un cacciatore conoscendo il suo cane, e spesso basta chiamare per nome un cane perché vi risponda il padrone. Il cane fa non solo la fama di colui che lo possiede, ma lo specializza altresì in questo o in quel ramo della cinegetica.

          Così abbiamo i cacciatori da punta e da macchia, per non parlare di quelli da taglio, gli specialisti in lepri o in quaglie, e via dicendo.

          Quasi la stessa importanza dei cani, e talvolta anche di più, hanno i furetti. Al mio paese molti cacciatori sono onusti di gloria appunto per i loro furetti. Essi generalmente sono specializzati in conigli, e sono dei cacciatori sedentari, di natura molto meditativa, tenace e sanguinaria, capaci di stare un giorno intero in vedetta al disopra di una tana, col fucile abbassato fra le ginocchia e la pipa in bocca, aspettando che il furetto torni forbendosi con la lingua i baffetti intrisi di sangue dopo aver scannato e regolarmente lasciato nei più profondi meandri il coniglio. Allora il cacciatore dal furetto si mette in opera, trasformandosi in esperto minatore, finché la vittima non venga alla luce. Molto spesso, invece di farsi scannare, il coniglio scappa da un passaggio segreto, noto col nome di sventaglio, alle spalle del cacciatore che se ne sta immobile come una statua, sicuro del fatto suo; oppure il furetto, trovandocisi bene, non torna più fuori dalla tana, dove resta per giorni e giorni, sordo alle chiamate, ai suffumigi, alle ambascerie per mezzo di altri furetti, i quali il più delle volte si lasciano invece subornare, e spesso si dà il caso che tutti i furetti del paese l’uno dopo l’altro vadano a far compagnia al primo. Quando un furetto resta nella tana tutto il paese è in subbuglio, si seguono con ansietà tutte le fasi del recupero, si trasmettono dei bollettini, si formano squadre volontarie di soccorso, si vivono ore veramente emozionanti. Finché il reprobo non si decide a tornare o non è ritrovato, la più grande costernazione regna nella comunità dei cacciatori uniti fra di loro dal più solidale spirito di corpo.

          Dopo quanta s’è detto non ci vuol molto a capire che ammazzare della selvaggina è soltanto prerogativa dei cacciatori. Se voi non siete cacciatore è inutile che andiate a caccia: potete avere i migliori cani, il fucile più potente, la polvere più infallibile, è tempo perso. Potete girare quanto volete, avrete un bel gridare ai vostri cani: – Prendilo Tom! piglialo Argante! – essi non prenderanno neppure una mosca, e voi ci perderete la voce e la lena. Se poi, per caso disperato, sparerete un colpo, ne sentirete, non si nega, la detonazione; ma non ne vedrete mai gli effetti: i vostri cani si metteranno a correre, voi correrete con orgasmo, dietro i cani, e quando sarete arrivati, fermatevi pure e poi sappiatemelo dire.

          Il fatto è che la selvaggina tiene nel massimo disprezzo i profani e si sentirebbe disonorata di farsi ammazzare da uno di loro. Quando un profano è a caccia, lepri, quaglie, pernici, conigli e affini si danno la voce, e per un raggio di cento miglia all’intorno la campagna diventa deserta. Questo spiega anche lo strano fenomeno per cui quando uno che non c’è mai stato va a qualche partita di caccia coi più famosi cacciatori, costoro contrariamente alle loro abitudini non incontrano neppure uno zitto, non sparano un sol colpo o se sparano non colgono mai il segno. Sono gli effetti del profano, e finché c’è lui la selvaggina se la fa alla larga. L’unico rimedio sarebbe sopprimere senz’altro il guastafeste, e vedrete che un giorno o l’altro i cacciatori, i quali ormai non ne possono più, arriveranno a questo estremo.

          Se volete dunque anche voi avere la voluttà di ammazzare della selvaggina, diventate prima cacciatore. Ma non crediate che questo sia tanto facile, perché se e vero che per ammazzare della selvaggina bisogna essere cacciatori, è altrettanto vero che per essere cacciatori bisogna ammazzare della selvaggina: il che diventa un problema insolubile.

Francesco Lanza, Il Tevere, 4 ottobre 1928