COMINCIÓ CON UN INCONTRO FORTUITO

Mi trovavo a Catania dove avevo sentito parlare favorevolmente del “Giorno della civetta” pubblicato da uno scrittore siciliano del quale ignoravo l’esistenza: Leonardo Sciascia. Acquistai il romanzo e mi recai alla stazione dove presi il treno per tornare a casa. Nel vagone, proprio di fronte a me, trovai una coppia sulla quarantina. Tirai fuori il volume e mi immersi nella lettura. Voltando una pagina, mi accorsi che la signora indicava al marito il libro che stavo leggendo, ricevendone un silenzioso sguardo d’intesa. Avrei potuto attaccare bottone, ma non volli interrompere il fluire di una narrazione che mi avvinceva. A Dittaino, aspettando la littorina per Valguarnera, diedi un’occhiata alla quarta di copertina e vi trovai la foto dell’autore. Non credetti ai miei occhi: era proprio quel signore seduto davanti a me.

Cominciai a precipitarmi sui libri di Sciascia man mano che uscivano. Ricordo l’appassionata recensione di “Feste religiose in Sicilia” che pubblicai sul “Baglio”, il precario mensile ciclostilato che dirigevo a Valguarnera. Lo scrittore di Racalmuto, paradossalmente, buttava secchi d’acqua sull’ardore letterario che covava in me. “La gente – mi dicevo – legge poco; è meglio che quel po’ di tempo lo riservi a scrittori come Leonardo Sciascia o Francesco Lanza che offrono pagine solide ed illuminanti”. Vedevo la produzione sciasciana come un modello di prosa, ma anche e soprattutto come una formidabile arma nella lotta per l’affrancamento della Sicilia dal sottosviluppo, dallo sfruttamento, dall’incultura, dalla corruzione, dalla mafia. Sciascia era l’antidoto al “Gattopardo”, gridava con voce robusta che l’isola doveva e poteva cambiare. Avevo, e come si sa non ero il solo, gran fede nella scrittura.

Leggendo le “Parrocchie di Regalpetra”, scoprii che da ragazzino lo scrittore era stato a Grottacalda (la zolfara in cui undici anni dopo i miei genitori si conosceranno e mi concepiranno) e a Valguarnera: “Mi piaceva l’odore dello zolfo, me ne stavo in giro tra gli operai, guardavo lo zolfo scolare come olio dai forni… Il paese era distante dalla zolfare, il paese di Francesco Lanza, ma allora non sapevo di Lanza… Un pomeriggio di domenica mio padre mi lasciò andare in paese in compagnia di un capomastro…” (vedi: http://www.valguarnera.com/daleggere/Sciascia1.htm). Sedici anni dopo, la zona sarà teatro di una tragedia che sconvolgerà Leonardo e che vedrà i miei familiari nel ruolo di testimoni indiretti. Il fratello Peppino, di poco più giovane, tanto estroverso quanto introverso era Leonardo, aveva studiato, seguendo il volere paterno, all’Istituto minerario di Caltanissetta; studi che, come affermerà il suo compagno di scuola Emanuele Macaluso, aveva fatto piuttosto controvoglia. Nel 1948, lavora alla miniera “Bambinello” di Assoro. Un giorno, come scrive in un biglietto che gli fu ritrovato in tasca, in preda “allo sconforto e alla mancanza di fede nel domani” si suicida usando una rivoltella. Peppino era anche, assieme a mio zio Pino Monica, fratello di mia madre, e ad Ignazio Merlisenna, membro di una società che conduceva la minuscola miniera Marcenò-Spirito Santo, a due passi dall’abitato di Valguarnera. Cessato il trauma, lo si dovette sostituire. Mio nonno, perito minerario anche lui, fece il nome di mio padre il quale, benché non avesse nulla a che fare col mondo delle miniere, accettò nella speranza di trovare un prodigioso filone dorato. Non fu così e la società dovette chiudere sepolta dai debiti. Mio zio Pino, sia detto per inciso, aveva appena sposato una sorella di quell’Ugo Cordova che era stato compagno di Leonardo alle Magistrali di Caltanissetta e che nel 1944 era stato testimone delle nozze del futuro scrittore. “Zio” Ugo, che era anche libraio, si apprestava a diventare segretario – e non direttore didattico, come abitualmente si scrive – nella stessa scuola.

Crescendo, Leonardo “saprà” di Lanza, lo apprezzerà e contribuirà a farlo conoscere. Nel 1970  dedicherà all’autore dei “Mimi” un capitolo della “Corda Pazza” (vedi: http://www.francescolanza.it/SCIASCIA_FRANCESCO%20LANZA.htm) e presiederà a Valguarnera il “Premio Francesco Lanza”, presentando una memorabile comunicazione. L’anno successivo, convincerà Elvira Sellerio a ripubblicare i “Mimi” ed Italo Calvino a scriverne l’introduzione.

 Io ero alle prese con la tesi di laurea in cui dissertavo di Francia e di Sicilia. Pensai bene di chiedergli  consiglio e gli scrissi per due volte nella casa palermitana di viale Scaduto dove si era ormai trasferito. Mi rispose puntualmente con lettere battute con la sua celebre macchina da scrivere su sottilissimi fogli, quasi trasparenti, corredati in basso da una firma sicura e ben visibile. Mi suggeriva interessanti piste di ricerca letteraria e di storia dell’arte. Scoprii il valore che dava alla pittura, ma, per insensibilità o mancanza di tempo, seguii solo le prime. Scoprii anche che eravamo accomunati dalla passione per la Francia, intesa come terra dei lumi e quindi vaccino contro la cosiddetta Sicilia irredimibile. Qualche anno dopo, il “Candido” me ne fornirà la riprova.

La pubblicazione del “Contesto”, che Sciascia definirà “cronaca di una desertificazione ideologica e ideale che in Italia è solo agli inizi”, segna una sorta di spartiacque dell’itinerario dello scrittore: l’immagine dell’“intellettuale organico”, del compagno di strada dei comunisti inizia ad appannarsi. Napoleone Colajanni lo attacca con durezza sull’“Unità” e anche l’amico Emanuele Macaluso tiene a prendere le distanze. Nel mio piccolo, anch’io, convinto della “diversità” del PCI partito nel quale militavo, ci resto male. Qualche anno dopo, la polemica si riaccende: i comunisti, in prima linea nella lotta contro il terrorismo, giudicano disfattista la frase attribuita allo scrittore “Né con lo stato, né con le Brigate Rosse”. In realtà, Sciascia aveva parlato di “questo” stato, ma la veemenza dello scontro era refrattaria alle sfumature. Un professore siciliano, da sempre geloso di Sciascia, si insinuò nello spazio lasciato libero dalla polemica per attaccare ancora una volta lo scrittore. Inviò una lettera antisciasciana all’“Unità”, che il direttore ritenne opportuno pubblicare. Mi vidi costretto a scrivere a mia volta questa lettera che uscì il 27 giugno 1980:

Cosa dire oggi, a trenta e più anni dalla morte si Sciascia, di tutto questo? Della polemica, per esempio, che non escluse neanche la carta bollata, avuta con Enrico Berlinguer? Non c’è dubbio che un intellettuale libero e lucido come Sciascia si muova su un terreno diverso da quello dei partiti politici, così come va constatato che l’“intellettuale collettivo” gramsciano non abbia dato i frutti sperati. Basta guardarsi intorno per rendersi conto che all’“eretico” Sciascia non faceva difetto la dimensione profetica. Emanuele Macaluso ebbe l’onestà intellettuale di pentirsi di quanto aveva detto a proposito del “Contesto”. Gli scrittori invecchiano o si mantengono attuali: La riflessione cui sta dando vita il centenario della nascita di Leonardo Sciascia ci dice senza equivoci in quale categoria egli vada collocato.

Qualche anno fa partecipai, assieme ad altri scrittori italiani, a una manifestazione letteraria in Francia,. Mi trovai a fianco di un giovane siciliano, Vito Catalano che scoprii essere il nipote di Sciascia. Stringemmo amicizia. Successivamente, grazie a lui, potei effettuare una visita all’appartamento palermitano in cui il nonno, alcuni decenni prima, aveva scritto le risposte alle lettere che gli avevo inviato. La mia emozione si tagliava col coltello. Osservai attentamente la biblioteca e i quadri. Mi feci fotografare sul balcone tenendo in mano il bastone di Sciascia con il pomello che riproduceva il volto ironico di Voltaire.

Tra i libri, non trovai “I Fasci Siciliani a Valguarnera” che, come sapevo, lo scrittore possedeva. Forse si troverà a Racalmuto, mi dissi. Un’occasione per andarvi e visitare i luoghi che hanno visto maturare quello che per non pochi è il più grande scrittore italiano della seconda metà del Novecento.