Giochi valguarneresi d’altri tempi

Un gruppo di amici non più giovanissimi, emigrati (è bizzarro usare questo termine per indicare il trasferirsi all’interno dello stesso Paese, ma in Italia – contrariamente alle altre nazioni da me conosciute – si usa, e non a caso, questa parola), emigrati, dicevo, in Piemonte da un paese dell’interno della Sicilia, ha la consuetudine di riunirsi di tanto in tanto. Il piacere (l’emozione, tiene a precisare l’autore) di ritrovarsi si coniuga con la nostalgia e con la naturale rievocazione dei vecchi tempi, visto che gli amici si conoscono dalla fanciullezza. Si tratta di una miscela esplosiva, alimentata da un doppio rimpianto, da una doppia perdita: la gioventù e il paese natale.

Questa volta, il gruppo si è riunito ai piedi del Gran Paradiso; dopo la grigliata di rito, grazie all’idea di uno dei suoi membri, la rimpatriata va al di là della dimensione nostalgica e la rievocazione si trasforma in una sorta di seduta antropologica, cui ognuno fornisce il proprio apporto. La miscela spaziotemporale, come si vedrà leggendo il testo, feconda allora la memoria e la creatività dei partecipanti. Si tratta di ricostruire i giochi all’aperto che i ragazzini di Valguarnera praticavano sul finire degli anni 1950 e il gruppo ci riesce egregiamente.

La lista cui il brain strorming dà vita è davvero esaustiva (o almeno tale appare all’autore di queste righe): chiavuzza, marredda, f’rrètt, carriuwl, cavadda, scagghiòl, biàr, ndruzzarjdd, sciusciùn, chiapparjdd, prima rugna, castjdd, f’lèccia, tubett e cat’nazz, ciappèdd, spaccamarùn, eccetera eccetera. Le varie voci vengono presentate con estrema precisione, millimetrica si potrebbe dire pensando alla descrizione degli strumenti ludici. Anche i disegni sono tecnicamente impeccabili. I nostri carrapipani di Torino devono essere avvezzi all’uso del centimetro come al consumo del pane quotidiano. Chapeau!

Il paese che questi giochi lasciano intravvedere è assai diverso da quello di oggi. C’è molta più gente (che vive in un abitato più piccolo di quello attuale, in alloggi spesso ristretti e non sempre accoglienti). La televisione la posseggono soltanto poche famiglie. I ragazzini passano, quindi, molte ore della giornata strat strat. Si formano i clan, si marca il territorio, ci si impadronisce del proprio quartiere. Si dedica molto tempo ai giochi praticati in comune. I giocattoli sono merce rara, al massimo le pistole “a fulminanti” fatte trovare per i Morti. Ci si ingegna a costruire cannola pi m’l’cucch, carriòla, f’lecc, frecc, spad, si reperiscono vecchie ruote che possano fungere da cìrcul, si collezionano cartell per giocare allo sciusciùn, si va a pescare nel patrimonio che è stato tramandato dalle precedenti generazioni e che il più delle volte non necessita di specifici oggetti ludici: trav luwngh, barca, muciarjdd. Quando si è fortunati e si entra in possesso di un pezzo di zolfo proveniente da una vicina miniera si può costruire una fussetta cu sùrfar, ci si trasforma in “arditori” e si creano meravigliose sculture. Quando si è a corto di idee, si può sempre trovare un malcapitato che permetta al gruppo di giocare alla badduzza.

La separazione di genere, come si usa dire oggi, è decisamente marcata. I giochi misti, arrivata l’adolescenza, non vengono più praticati. Lo spazio riservato alle bambine è quello della cantunera davanti alla porta di casa o poco più. I giochi non sono gli stessi, alle femminucce sono riservati saut cu a corda, scagghiòl o quella palla o mur cui viene abbinata questa favolosa filastrocca: “Palla uno: pippinello/due: catarinello/tre: saluta il re/quattro: io mi allaccio/cinque: io mi cingo/sei: gioco con lei/sette mi metto le calzette/otto: mi metto il cappotto…”. Dotata di non minor gusto per la “funzione poetica” è la tiritera abbinata al gioco della “luna al monte”: (…) Tre la figlia del re (….) Sette le baionette – Otto Gingiotto – Nove Margherita fa le prove – Dieci pasta, fagioli e ceci (…), che finisce con il seguente crescendo, al cui vertice viene sorprendentemente (ma forse la voglia del possesso può spiegare la scelta) collocato il ciclomotore: Diciassette la bicicletta – Diciotto la macchina – Diciannove il trattore – Venti il motorino.

La vecchia separazione di genere fa capolino ancor oggi come ci apprendono i sorrisi condiscendenti delle mogli. Alcune di esse fanno, tuttavia, irruzione da protagoniste in questo divertente (ed utilissimo) Decamerone strapaesano cui, spero, un giorno di essere presente per poter fare anch’io un salutare tuffo spaziotemporale.

La lingua usata dai giocatori era ovviamente il carrapipano, anche se, come si è visto, l’italiano appreso a scuola cominciava ad infiltrarsi apportando colte pennellate. Per Saro Sardisco si è quindi posto il problema della trascrizione del dialetto. Aveva davanti a sé due possibilità: ricorrere al siciliano standard e pronunciarlo alla carrapipana (per intenderci, scrivere circulu e leggere cìrcul’) oppure trascrivere il carrapipano così com’è effettivamente pronunciato. Saro ha adottato la seconda soluzione che è anche quella che io pratico (vedi la pagina face book “Lezioni di carrapipano” da me curata:https://www.facebook.com/groups/74474034568/10153813663229569/?notif_t=group_comment). Una soluzione che comporta una serie di (sormontabili con un po’ di sforzo) difficoltà quali la necessità di trascrivere quei suoni che non esistono né nel siciliano, nè nell’italiano standard: la “vocale centrale” (quella che troviamo dopo la t nella parola t’rrèn = terreno e che va pronunciata se non si vuole evocare un treno), il fonema con cui comincia la parola Washington (che ritroviamo in iuwch = gioco e in mille altre parole) o il suono che ritroviamo in vjnt = vento e che è altra cosa della i di vint = numero venti. A parte queste trascrizioni che a prima vista potrebbero sembrare strane e il problema di rendere correttamente le vocali che stanno a metà strada tra la i e la e (ziu = zio) e tra la o e la u (f’tùs = fetente), la regola che sovrintende a questa ortografia fonetica è la seguente: “nessun apostrofo o accento se il loro uso non è strettamente necessario alla corretta trascrizione della pronuncia carrapipana”.

Una pronuncia fatta di suoni ed intonazioni che sono entrati in noi assieme al latte materno. Buona lettura.
Enzo Barnabà
(Prefazione a “Nel Cerchio dei Ricordi. Giochi valguarneresi all’aperto narrati ed illustrati da Rosario Sardisco”, la Moderna Edizioni, Enna 2016: http://www.libreriauniversitaria.it/cerchio-ricordi-giochi-valguarneresi-aperto/libro/9788895693606 )