ICASTICITA’ DI UNA PARLATA VIVA – Non ci si sente davvero a Valguarnera

Desidero chiudere questi racconti con un mio modesto omaggio a Francesco Lanza, un figlio illustre della mia terra, uno scrittore che seppe ritrarre «il lato comico» della vita e, specialmente nei «Mimi Siciliani», piegò la sua arte personalissima all’intento di far ridere e divertire il lettore.

Lo vidi poche volte al paese, perché egli se ne stava quasi sempre lontano ed io a undici anni andai a studiare a Piazza.

L’ultima volta fu alla stazione di Dittaino dove egli at­tendeva il treno per Roma, per quell’ultimo viaggio da cui sarebbe tornato all’improvviso per morire, nel pieno del suo vigore creativo.

Era alto e imponente e aveva lo sguardo arguto e bona­rio della nostra gente. Lo vidi prendere il treno — era solo — e guardare dal finestrino verso la dolce collina alle cui pen­dici c’era la sua casa di campagna, e lo salutai con la mano, anche se egli forse non si accorgeva neppure di me. L’attac­camento alla stessa mia terra che si leggeva nel suo sguardo lo avvicinò subito al mio cuore, perché mi parve più forte di ogni avversità, di ogni delusione, della stessa morte.

E Valguarnera vive e vivrà nella sua opera, pur così pre­sto interrotta, perché gran parte del fascino che promana dalla sua creazione più bella, i «Mimi Siciliani», deriva proprio dal dialetto siculo-valguarnerese che si nobilita nella lingua del Lanza, mentre questa si arricchisce del vigore di quello, della sua immediatezza fresca e smagliante. Qui il dialetto ha toni propri della parlata di Valguarnera, ha suoni, mo­venze ed espressioni particolari che riconosce bene chi quel­la parlata ha appresa col latte materno; quella parlata che si va perdendo col mutare dei tempi inesorabilmente, ma che rimane viva e risuona nella traduzione in lingua operata ma­gistralmente dall’autore. Il dialetto siciliano, assorbito attra­verso la parlatavalguarnerese, mantiene nei Mimi una sua straordinaria vivacità, che non si riscontra simile negli altri scrittori siciliani, neppure nei più grandi.

Il lettore valguarnerese in certo senso è un privilegiato per­ché è in condizione di congiungere alla lingua inconfondibi­le del Lanza un suono altrettanto inconfondibile; perché può ritrovare nelle tante locuzioni popolari, di cui quella è intes­suta, la forza espressiva con cui esse vivono ancora tra la gente del paese, quella parlata marcata e vigorosa, sana e forte co­me la buona terra da cui è nata: voce di gente sanguigna e laboriosa, ridanciana e buontempona, che ama divertirsi al­le spalle degli altri, siano essi i cittadini degli altri paesi fatti oggetto di satira campanilistica, o siano i personaggi di aned­doti salaci e di facili vicende erotiche, che offrono un’occa­sione inesauribile di riso.

Così, accanto alla stoltezza balorda di tanti paesani, tro­viamo nei Mimi il classico triangolo del marito sciocco e cre­dulone, cornuto per definizione, della moglie vogliosa e sem­pre disponibile, e del compare pronto ad accontentarla o a soddisfare con l’astuzia le sue brame.

E tutto questo con uno stile argutamente allusivo, e di­staccato, senza che appaia un benché vago risentimento mo­rale o una sia pur lieve vibrazione affettiva.

Nel valguarnerese che si diverte ad ascoltare racconti di imprese erotiche, che prende gusto alle barzellette «spinte», allorché si intrattiene nei ritrovi sociali o fa cerchio con gli amici nelle conversazioni all’aperto durante i lunghi merig­gi estivi, sembra che sopravviva, a distanza di millenni, lo spi­rito della «komodìa», il canto fallico del villaggio greco-siculo, progenitore della commedia antica e moderna.

Non tutto è morto tra gli scheletri di pietra di Morgantina e di Magella.

Al tempo che quelle cittadine fiorivano, proprio in Sici­lia si rinnovava la letteratura; con Teocrito nasceva l’inte­resse per l’umile vita di un piccolo mondo campagnolo ma anche cittadino, che veniva guardato con umana simpatia e bonario umorismo nei suoi aspetti più semplici e comuni; basti leggere le «Talisie» i «Mietitori» le «Siracusane».

Nello stesso periodo scriveva i suoi Mimi (così chiamati perché riproducono fedelmente, «imitano» la realtà) Eroda, il quale per esempio nella «Mezzana» (la vecchia che fa pro­poste disoneste a una donna il cui marito è lontano), come pure nelle «Amiche intime» (una giovane donna parla all’a­mica di un fallo di cuoio, il «baubon», oggetto di piacere, costruito dal calzolaio Cerdone) rappresenta con tono po­polaresco una società umile nei suoi aspetti più crudi.

Eroda fu scoperto in un papiro egiziano nel 1890, e alla notorietà che raggiunse subito si deve la denominazione di Mimi Siciliani suggerita alla raccolta del Lanza da Ardengo Soffici.

Per me però la raccolta, se le si vuole cercare un’ascen­denza classica, più che ai Mimi di Eroda fa pensare agli epi­grammi greci dell’Antologia Palatina specie del periodo ales­sandrino, per la varietà dei temi, spesso amorosi e lascivi, l’essenzialità dell’impianto espositivo e la rapidità della con­clusione; ma anche, per queste caratteristiche e specialmen­te per la procacità violenta e quasi innocente dei racconti di argomento erotico, essa rimanda all’epigrammatica latina e in particolare a Catullo e Marziale, se si esclude l’aspra aggressività polemica che alimenta in quelli un sorriso amaro.

Ma c’è una differenza di fondo nello spirito che anima gli scritti di Ernoda e del Lanza: nello scrittore moderno sull’interesse aridamente descritto prevale quello umoristico: egli vuole soprattutto far ridere e divertire. E Valguarnera è la fonte della sua lingua e della sua ispirazione.

Tanti acuti critici — e tra questi mio cugino Mariano — hanno saputo rilevare la raffinatezza di uno stile che sembra spontaneo e popolare, ed è invece frutto di un’arte straordi­naria, che sa cogliere con rapidi tocchi l’essenziale, che ha il buon gusto di evitare ogni oscenità scurrile e volgare, e con­serva intatto il senso classico della misura.

A me interessa soprattutto evidenziare la sua inesausta «vis comica», sempre controllata, la sua capacità di cogliere il lato giocoso dell’esistenza, con un aristocratico distacco e un velo di disincantata amabile ironia.

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Già, riguardo all’argomento, molti racconti si ispirano all’aneddotica campanilistica che sopravvive nei miei com­paesani ai danni degli abitanti dei paesi più vicini. I piazzesi, gli ennesi, i barrafranchesi ecc. sono stati da sempre oggetto di satira, bersaglio di strali che si rilanciano a vicen­da e che qui alimentano un ricco filone di comicità.

Alcuni racconti sono nati direttamente da motti ancora vivi nel popolo. (Per le citazioni mi servo della recentissima edizione dei Mimi Siciliani dell’Editrice Il Lunario di Enna, con introduzione di Corrado Sofia).

Cosi il mimo «La Villarosana» p. 120 amplia il vecchio ritornello: «Mamma, Ciccu mi tocca… Toccami Ciccu»; il detto «Perse le mule e va cercando i capestri» è ampliato nel mimo «I capestri» p. 52; e la canzonetta satirica popolare «Mannaggia di so ma’, quant’ha li minni / ci po’ ddattari un sceccu di quattr’anni» sta all’origine del mimo «La caropipana» p. 179.

Dalla vivacità della parlata siciliana e segnatamente valguarnerese deriva il taglio di tanti racconti di grande effica­cia rappresentativa, che si esprime con una nuova sintassi, sottratta agli schemi tradizionali e deliziosamente icastica.

Si veda per esempio a p. 63, dove si parla della luna in­ghiottita dall’asino, «il barrafranchese se lo prese il diavo­lo», e, più sotto, «presa che c’era una pietra», dove c’è una prolessi della relativa, colta dal vivo raccontare. E ancora, a p. 126 «La sperlinghese, il marito le era andato lontano»; e nella rappresentazione della Passione col Cristo e la Mad­dalena, «con le mammelle tutte fuori per il dolore», il primo figurante «a guardarla così, l’asino gli si drizzava»; e l’intervento del giudeo con la lancia peggiorava la situazione.

Ma tutta la raccolta è ricca di espressioni vivacemente dia­lettali che danno un fascino particolare al linguaggio forbito del Lanza.

Così a p. 41 il prizzitano che al fuoco illusorio del faro dice «mi sento ricreare» richiama il turgido «arricriarisi» del dialetto. Così «la bella congiuntura» di p. 47 è calco della «bedda cugnintura»; così il detto «senza né ài né bai» di p. 46; la luna del barrafranchese che si riaffaccia nell’acqua «bel­la lucente»; il riferimento temporale «alla stagione» di p. 73 per dire «nell’estate», l’espressione «per il sì e per il no» di p. 77, e il paratoraio che «si tolse il fiasco e se lo succiò tut­to» p. 87, e il medico che parla italiano, «con la lingua di fuo­ri» e dicediocotto invece di decotto, sono tutti calchi dialet­tali; e ancora, modi di dire come «’mbriachi fino alle nasche» p. 67, o «nessuno se la voleva dar persa»; e ancora «santissi­mo e santissimo» di p. 85 per descrivere chi «santìa»; o quel «mai, che cotesto non può essere» p. 66 che nega con più efficacia di «no»; quel «si voltava e svoltava» p. 126, quel «corna e non corna» di p. 122, quel «coglierla» la lepre nel senso di sorprenderla p. 125, sono tutte espressioni dialettali ricche di una straordinaria vitalità.

Il dialetto siculo-valguarnerese si coglie in tutta la sua ica­sticità, oltre che in espressioni comunissime come: «e buonanotte ai suonatori» p. 168 o «non capiva più negli abiti dalla contentezza» p. 162 o «facendosi la croce con la mano manca» p. 146, soprattutto nei frequenti paragoni. Per esem­pio: la zita «è lunga e dritta come una pala di forno… e stec­chita come avesse inghiottito uno spiedo» p. 37, variante del manico di scopa; il fico nero «come una melenzana» che da noi si chiama proprio fico melanzana; «un omaccione come un saracino» p. 157; «le stampò un figlio come un angelo» p. 162; «pettuta come una colomba» p. 139; e, in chiusura, la caropipana che «aveva un petto quanto l’altar maggiore e ogni minna come una ciaramella».

Mi piace concludere la rapida rassegna con espressioni che io ritengo tipiche del mio paese: la settimana santa, «Calò l’ora» p. 139; «Ahi, amara me» p. 128; «Siete più dolce del­la pasta di casa» p. 163; «Ci ingrassava a occhio vedendo» p. 173; lei, «la benedica» p. 179; «Quando spiccicarono gli occhi» p. 167; nella chiesa «non ci andava più neppure un chicco di grano», e poi i «retoni» di paglia, il «balzo», il cam­po valoroso…

Non ci si sente davvero a Valguarnera?

(Luigi Lamartina, “Icasticità di una parlata viva”, in Voglia di raccontare II. Il lato comico, C.U.E.C.M., Catania 1992)