IL DECAMERONE SICILIANO

[Melo Freni, noto giornalista e scrittore siciliano, si è recato più volte a Valguarnera sulla tracce di Francesco Lanza, come racconta in questa lettera indirizzata all’antropologo Luigi Lombardi Satriani. La lettera non è datata ma con ogni probabilità risale ai primi anni 1980. E.B.]

Caro Luigi, hai dunque ricevuto la fotografia che mi hai chiesto del paese di Francesco Lanza, quello strano paese che sottintende il secondo nome di Caropepe, da cui la “carrapipana” della commedia “L’aria del continente” di Nino Martoglio, che quando smette la finzione di essere continentale fa gridare al suo amante siciliano “ah, carrapipana è”. Visto che ho incominciato questa lettera con un fuori tema, rispetto al contenuto che deve avere, consentimi di concludere la licenza: la commedia di Martoglio è bella, la carrapipana ha dato notorietà al suo paese, ma è manchevole che
non sia sufficientemente conosciuto proprio Francesco Lanza, arguto e sincero scrittore di popolo, al quale tanto si deve per quello che seppe cogliere e trasmettere del mondo contadino, autore ed interprete di un piccolo “Decamerone” siciliano, intenso di dubbie ingenuità e ridanciane novelline raccolte sotto il titolo di “Mimi siciliani”.  La sua tomba è un letto di mattoni con quattro alzatine agli angoli, anch’esse di mattoni, con i segni del tempo accumulati da quel gennaio del 1933, quando la terra si chiuse sulla vita dello scrittore, che aveva appena 36 anni. È una vecchia foto, la mia, che scattai agli inizi del 1960 allorché investito dalla febbre delle letture, incominciai il pellegrinaggio che ancora dura nei luoghi che le pagine vanno rivelando: dalle zolfare di Lercara Friddi alla Monterosso Almo delle “Parità” di Serafino Amabile Guastella, dalla Isnello del siculo americano Impellitteri sindaco di New York, alla Trappeto di Danilo Dolci, alla Scicli di “Le città del mondo”, dalla Polizzi Generosa di Borgese agli Erei di Savarese, dal Belice di Tomasi di Lampedusa alla Sambuca di Navarro della Miraglia e così via. A Valguarnera, e fra le pagine di Francesco Lanza, fu Sciascia a spingermi, parlandomene quando ancora abitava a Caltanissetta. A Valguarnera viveva un fratello di Lanza, Vittorio [20.9.1906-30.11.1977, di nove anni più giovane di Francesco, ndr], il quale, finche visse, si adoperò tanto per mantenere viva la memoria del fratello. Per alcuni anni gli dedicò anche un premio letterario, del quale fu magna parte proprio Leonardo Sciascia [In realtà a Valguarnera vi fu una sola edizione del premio, che si concluse il 1.5.1970 presso la Sala consiliare, ndr]. Poi, si sa come vanno tante cose in Sicilia: gli eventi sono legati al nome e alla volontà di una persona, scomparsa la quale scompare tutto. 

Ho avuto la fortuna di conoscere Vittorio, di incontrarlo diverse volte e di essere stato condotto da lui nella casa dove suo fratello viveva, in contrada San Francesco. Lì scriveva non soltanto i “Mimi”, ma anche il suo “Almanacco per il popolo siciliano” i testi del suo teatro, “troppo audaci” anche per un disinibito come Angelo Museo (per cui soltanto “Corpus Domini” fu rappresentato con successo, a Roma, al Teatro degli Indipendenti). Come ti dicevo, a lasciare stupiti è il rapporto dell’indiscutibile audacia di Lanza scrittore con l’indiscutibilità della sua mitezza, della misura “urbana” del suo dire, del suo fare. È che la sua audacia ricalcava senza finzioni quella dell’ambiente al quale lui attingeva, in tutto e per tutto furbesca e contadina, dove non di rado si finge l’alloccaggine, come si dice, per
non pagare il dazio.  “Umorismo azzardato e denso” diceva lui stesso, via via che le sue novelline ridanciane le andava pubblicando su giornali e riviste, durante il suo soggiorno da giornalista a Roma. Il titolo originario delle singole puntate era “Storie di Nino Scardino”, e l’idea di raccoglierle sotto il titolo di “Mimi siciliani” fu di Ardengo Soffici. Quello che non ho avuto il tempo di dirti a voce e che qui ti voglio sottoporre è quanto segue: in alcuni Mimi le situazioni sono tali che, ragionando o sragionando secondo ciò che la letteratura tradizionale ci ha tramandato, gli epiloghi non potrebbero
essere altro che della tragedia. Porto due esempi: è possibile che il marito della sanfilippana, ritornato da una lunga assenza di lavoro nei campi, trovando la moglie sgravata di un bel bambino ne lodi i bei piedini e poi, venuto a sapere che lui si era dimenticato a farglieli e quindi erano merito del compare, se ne compiaccia con questi, contro la sua stessa sbadataggine? È possibile che un troinese, ritornato a casa all’improvviso, non si renda conto dell’inganno escogitato lì per lì dalla moglie e dal compare sorpresi mentre fanno i fatti loro, e vedendo questi cadere da un cesto sotto il soffitto creda che sia l’Arcangelo Gabriele ad averlo mandato per chiedergli un favore? Francesco Lanza con le corna ci scherza, non ne fa motivo di tragedia e questo mi induce a pensare che a lui si deve una sorta di terza via per il superamento di ciò che nel “verismo” portava all’immancabile duello, in Pirandello nella fuga della finta pazzia. In Lanza la chiave della stupidità, spinta al paradosso della più furbesca invenzione, veste l’arguzia di semplicioneria e per questo la fa erroneamente giudicare. Vorrei che tu mi rispondessi, mi dicessi cosa ne pensi. Come vedi, l’occasione di una fotografia mi ha preso la mano e sono andato oltre al dovuto. Ma Francesco Lanza mi attrae tanto e mi lascio sempre trasportare in quel suo mondo che tanto ci appartiene.   
(Da Melo Freni, Caro Luigi – Lettere dalla Sicilia, Pellegrini Editore, Cosenza, 2009. Le due foto sono tratte dal libro e sono state verosimilmente scattate dall’autore)