LA DISUBBIDIENZA

I

 

        Manca più di un’ora alla partenza del treno e Maria è già alzata:

Ninu rivìgghiati

La giornata, nonostante siano le quattro del mattino, è  calda e si preannuncia torrida: “aòggi a Catania murimu” pensa. Si aggira per la casa ancora in sottoveste, i capelli sciolti da arrotolare dietro la nuca, parlando alle ragazze che vorrebbero dormire in pace e invece devono rispondere alla madre che fa mille raccomandazioni: “…se Concetta porta le uova… per il rubinetto dite a Peppino …”.  Sara e Teresa girandosi sull’altro fianco, con la voce assonnata, ripetono le richieste fatte da giorni, più per far sentire di essere in ascolto  che per una vera necessità.

“Se trovi le scarpe….  basta che siano scasselate…” – “… a me la stoffa per la gonna…”

“Va bene, va bene. Stamu attenti, cu veni veni…”

Si dilunga in quelle frasi dette e ridette la sera prima, che ora si ostina a rinnovare per un istinto a coprire il silenzio e l’abitudine alle raccomandazioni: sa perfettamente di avere figli a posto.

Nel frattempo prende la sporta, vi inserisce del pane, del formaggio, della frutta, una bottiglia d’acqua da consumare sul treno, visto che non sarebbero arrivati prima di due e anche tre ore, aggiunge una sarvietta, controlla il borsellino con pochi soldi, avvolge un altro gruzzolo nel fazzoletto e lo infila nel reggiseno: a Catania ci sono i ladri che scippanu  macari  l’uocchi  senza che nessuno se ne accorga, di faccia a faccia come fossero prestigiatori  sti figghi di buttane.

Ninu sùsiti – urla spazientita – Nan ti vogghiu chiamari chiù”.

Lei è pronta: esasperata da Nino che non dà segni di vita, fa per entrare nella camera di suo figlio e scopre che è chiusa. Chiusa da dentro. Nientemeno! Tenta di forzare la serratura e si accorge che c’è inserita la chiave.

In un lampo intuisce e sgrana gli occhi. Come una furia si precipita fuori, fa il giro ad angolo della casa e il sospetto che l’assaliva da qualche giorno si conferma, mescolandosi, come una miscela che le procura inquietudine, con il timore: Nino non c’è. La zanzariera, al piano rialzato, è schiodata e appoggiata sul davanzale; la finestra è aperta. Allora fa il giro inverso, chiama Teresa, le fa fare lo stesso percorso, la fa salire su una sedia, la fa entrare dalla finestra, fa aprire la porta dall’interno e una volta dentro trova i vestiti da lavoro di Nino sulla sedia mentre il letto è disfatto “artificialmente”.

“Disgraziato, sdisanuratu , ecco perché si chiude a chiave – mormora Maria a denti stretti – ora ti fazzu  vìdiri come si usa”.

         Il breve tragitto verso la stazione le sembra più lungo del solito. Il tempo è stato troppo corto per ciò che aveva scoperto e la irrita il fatto di non avere avuto qualche minuto in più per parlarne con Teresa, commentare, riflettere e capire; ora non può, deve andare veloce, sperare che Nino sia alla stazione e salire sul treno: il suo cuore batte forte da un po’ e il respiro è diventato affannoso. “Si nan c’è mi nni tornu intra”, aveva detto alle ragazze.

I passeggeri, scesi dal treno appena giunto da Valguarnera, si accingono a salire su quello che va a Catania, approntato nella stazione di Dittaino.

Cosa fare, cosa dire, come affrontare quello che da sospetto fastidioso ora si rivelava come una prova difficile da fronteggiare e impossibile ormai da ignorare? Sono cose da uomini, e l’unico uomo rimasto è Nino e poi la mancanza di confidenza, sinonimo di rispetto tra genitori e figli, rende l’impresa più grande delle sue capacità di madre e di capo famiglia. Dover discutere con un figlio di cose personali e addirittura intime, voleva dire portarsi alla pari come fosse un uomo esperto del mondo. Ma suo figlio è un ragazzo che non conosce affatto il mondo e dunque deve superare il forte imbarazzo, trovare le parole giuste, e sperare di ottenere la verità.

Nino è alla stazione. Maria lo fulmina con uno sguardo rapido ma colmo di livore “tu ca sii? Iu mancu ti visti nesciri”. Il ragazzo non risponde. L’aiuta a prendere la sporta e le procura il posto accanto al finestrino, come faceva sempre, sapendo che la madre soffre il treno.

Maria deve controllarsi, vuole evitare al ferroviere, che l’ha salutata con familiarità e anzi ha fatto dello spirito per aver visto arrivare Nino prima di lei, di intuire che qualcosa non è andata nel  giusto verso. Ammesso che egli non sia al corrente, prima e meglio di lei, e magari chissà da quando! In un posto come Dittaino, sapere tutto di ognuno è quanto di più inevitabile esista al mondo.

Sono abituati a vederli arrivare insieme, madre e figlio, tutte le volte che vanno a Catania per fare provviste, al ritmo di una volta al mese. “Na città, a fera o luni, si trova u beni ri Diu” è solita ripetere Maria, e finisce sempre con il fare acquisti per sè e  già che c’è anche per gli altri. 

Dal treno proveniente da Valguarnera è giunta una coppia  poco più che ragazzi: lei pallida, con i capelli sfibrati e due occhi sprofondati  nella più amara rassegnazione,  regge in braccio un neonato fragile e sparuto; lui che non dimostra più di vent’anni guarda Maria con un guizzo come a dire “che fortuna, abbiamo una donna come compagna di viaggio”. La salutano e si siedono nello stesso scompartimento, per stare in compagnia, dicono. Prima ancora di sistemare le sporte, si mettono a dire che vanno in città per far passare una visita al piccolo: vomita spesso e  a Valguarnera i medici generici non riescono a individuarne la causa.  Alla fine si sono decisi a fare quel viaggio in città, o mari ranni, dove ci sono specialisti e luminari.

Maria finge indifferenza, e grazie alla conversazione dalla quale si lascia prendere, sente allentarsi la tensione che le attorciglia lo stomaco.

Nino, in disparte e in silenzio, vorrebbe non arrivare mai a Catania, vorrebbe che quei compagni di viaggio non li lasciassero mai soli, e intanto si arrovella ad elaborare un qualche credibile alibi nel caso probabilissimo che sua madre chieda spiegazioni. Poi, nei pressi di Catenanuova, la stanchezza ha il sopravvento, ed egli, grato e fiducioso vi si abbandona.

Maria, superato il primo istinto di aggredirlo a parole, pensa che forse è meglio non precipitare le cose. Forse , si dice, è la prima volta che accade e come succede spesso, il diavolo ne fa tante che proprio quella volta lei lo venisse a scoprire. Se così fosse, tutto si risolverebbe con la solita predica; ora è a prima che un ragazzo va a donne! Accussì è u munnu. Nino ha voluto scappricciarsi, magari spinto da qualche amico o compagno di lavoro o anche dalla curiosità che il “fatto” suscita ogni volta, in un posto dove non esiste altro che la stazioncina e quattro anime in croce: non una piazza, non un ritrovo, nessun negozio, nessun servizio, neanche un punto di riferimento per quei pochissimi abitanti che restano a Dittaino. L’unico movimento è rappresentato dagli arrivi e dalle partenze del treno che, con il sibilo che diffonde in un largo raggio e la scia di vapore candido che si allarga e si dissolve nell’aria, scandisce le ore in tutta la valle: anche senza orologio avverte il tempo passare “…miii!! u trenu di Catania rrivàu, i quattru e menza sunu già!”.

 Nino è giovane, ha solo ventun anni, ed è inesperto di donne; impossibile sottrarsi al fascino e all’attrazione che un’opportunità simile esercita su lui e dunque si potrebbe, almeno una volta, inghiottire amaro; purché sia una volta!

Maria non vuole mettere il figlio in allarme, deve prima accertarsi se è stata una marachella passeggera o che altro.

Le sere successive, quando Nino si ritirava in camera e chiudeva la porta a chiave, lei si nascondeva dietro ad un cespuglio ed assisteva all’operazione: il ragazzo staccava con attenzione la zanzariera, scavalcava circospetto il davanzale, rimetteva la zanzariera sul bordo della finestra e si allontanava nel buio verso il “pagliaio” delle prostitute.

Maria stabilisce, adesso senza quel dubbio che lascia uno spiraglio alla speranza, che non è affatto “cosa di na vota”.                                                 

 

II

 

 

“Quannu a morti ara vèniri veni, o scappi o nan scappi” aveva detto Filippo al suo compagno che voleva scappare, ed era rimasto alla stazione al suo posto di lavoro.

Maria, a letto da alcuni mesi, indebolita dalla gravidanza e dal parto dell’ultima dei suoi nove figli, al suono della sirena, si era alzata in camicia da notte, aveva afferrata la neonata, senza neanche il tempo di prendere uno scialle per coprirsi, aveva urlato disperatamente per chiamare tutti gli altri, e con le gambe che stentavano a sorreggerla era fuggita verso la campagna poco distante. Raggiunto un albero di ulivo, aveva fatto accovacciare i più piccoli per farli proteggere dai più grandi, e dopo aver stretto la neonata tra le braccia, aveva piegato il busto come a volerli coprire: per alcuni minuti madre e figli, immobili, trattengono il respiro.

L’incursione, nella valle del Dittaino, era durata pochi attimi, e tra i bersagli colpiti c’era stata la loro abitazione e il casello ferroviario dove Filippo e Maria lavoravano: lui addetto a mansioni varie nella stazione, lei occupata alla gestione del casello.

Era stato centrato anche qualche vagone in disuso, abbandonato accanto ad un ammasso di materiale ferroso e le schegge, schizzate in aria come un fuoco d’artificio, frantumandosi, erano volati distanti centinaia di metri.

Filippo ancor prima di rendersi conto della sua imprudenza, viene investito dai frammenti impazziti e dalla violenza di alcuni detriti che gli procurano ferite un po’ ovunque; una pesante lama tagliente ferma la sua corsa sulle gambe dello sventurato tranciandoli come tronchi di legno sotto una sega elettrica.

Il compagno, uscito dal nascondiglio, corre a cercarlo e lo trova in una pozza di sangue che invoca inutilmente “aiutatemi, aiutatemi…”

Neanche una mano divina poteva salvarlo, perché a Dittaino non c’erano né medici, né medicine; i collegamenti radio erano saltati, e non esisteva neanche un mezzo per trasportarlo in uno dei paesi che si trovavano oltre i dieci km di distanza. Filippo, per mancanza di soccorso, muore dissanguato dopo orribili sofferenze e una lunga agonia.

Maria, in pochi inverosimili minuti si ritrovò senza marito, senza casa e con sette dei suoi nove figli da sfamare: dei due più grandi uno era già sposato e l’altro in guerra. 

Anche la casa di Valguarnera era stata quasi distrutta e i pochi soldi che aveva da parte dovevano servire a renderla funzionale quel tanto da non restare a lungo dalla suocera che l’aveva accolta in casa con la sua numerosa famiglia. Maria doveva cercare, e trovare, il sistema per sfamare i suoi figli. Sapeva fare le iniezioni alla meno peggio, poteva tentare la strada dell’infermiera a domicilio, da una parte all’altra del paese. Anche se non era un lavoro continuo e sicuro, per cominciare, si era rivelato essenziale a garantire la sopravvivenza. In seguito si accorda con un bottegaio per fornire una quantità di pane da impastare, ogni giorno all’alba, per un compenso di poche centinaia di lire, e la garanzia di continuità, stavolta ricompensava l’estrema fatica.

Un paio d’anni dopo era tornata a Dittaino, al suo impegno nel casello e però aveva dovuto portare i due bambini più piccoli in collegio a Caltanissetta: prendersi cura di tutti era impossibile.

Franco dopo il militare si era arruolato nella polizia, un’altra delle ragazze si era sposata ed era andata a vivere a Valguarnera, Teresa e Sara, ormai grandicelle, rimaste in casa ad aiutare, Nino, prima ancora di compiere i quindici anni prese, alla stazione, il posto del padre. 

 

                         

Dittaino, scalo ferroviario importante per l’entroterra siciliano, è il passaggio obbligato per collegamenti con le grandi città come Catania, Palermo e Agrigento. Luogo di carico e scarico, nonché deposito di tutte le merci provenienti da ogni parte dell’isola e dal continente è abitato da poche famiglie e un numero irrisorio di persone: non più di venti.

D’inverno, di tanto in tanto, le famiglie si ritrovano in casa di una di loro e trascorrono la serata insieme, consumando qualche dolce fatto in casa, un bicchierino, un disco sul grammofono ed è festa.

D’estate si sta seduti all’aperto a chiacchierare davanti la soglia dell’una o dell’altra casa, sempre con il passaggio del treno che per quanto in discordia con l’orologio, scandisce il tempo inesorabilmente.

Quest’anno, agli argomenti usuali, si è aggiunto un fatto che turba gli animi di tutti: si vocifera che i pastori (che ogni estate vengono da fuori a pascolare il loro gregge, trascorrendo la stagione nella valle e dormendo in pagliai tirati su per l’occorrenza) abbiano come ospiti delle prostitute: questo si era verificato anche negli anni precedenti, ma non avendo avuto presa con gli uomini del luogo, la cosa era stata considerata solo con un senso di fastidio che sarebbe finito con l’estate.

Il turbamento scaturisce dal fatto che Nino, il figlio di Maria, sta cominciando a frequentarle quasi con regolarità.

Donne che arrivano da lontano, che nessuno conosce e tutti disprezzano per l’istinto immediato a considerare la “categoria” al margine della vita civile. Prostituirsi in un pagliaio non può che essere l’alternativa al marciapiede e perciò si deve trattare di donne, oltre che allo stadio più basso,  anche brutte e quasi certamente  di età avanzata.

Le mogli non toccano l’argomento per il disagio che il fatto di parlarne vuol dire prestare loro attenzione; gli uomini le deridono a voce alta anche se dentro la curiosità e l’attrattiva per “quelle” che vivono tanto fuori dagli schemi soliti, li stimola e li ripugna nello stesso tempo.

Di certo, denaro per loro nessuno ne ha e di certo si accontentano di ricevere, da eventuali e improbabili clienti, ricompense di carattere alimentare: pasta, carne, vino per un banchetto allegro. Qualche agnello sgozzato e tutto deve finire li.  Ci si chiede quale sia la provenienza, si considera che solo le grandi città possono fornire quel tipo di “materiale” e come facciano a vivere in condizioni al limite del primitivo, alla mercé di uomini brutali e all’occorrenza violenti.

Questi gli argomenti che si sciorinavano in passato quando cascava il discorso. 

Ora il discorso sulle prostitute casca con puntuale assiduità per via di Nino che ci bazzica troppo e se non sta attento il ragazzo, per la giovane età e la mancanza di un padre che lo raddrizzi, potrebbe andare incontro a dei problemi che nemmeno immagina.

 

 

 

III

 

 

Non riesce Maria a sopportare il comportamento di Nino. Deve sciogliere il nodo e risolvere quanto prima la scabrosa questione. E’ disonorevole per lei e per le signorine che ha ancora in casa; e poi, da quando in qua un ragazzo frequenta una prostituta come fosse una fidanzata, e da quando in qua una madre non deve averla vinta su un figlio giovane che sembra smarrire la ragione? E chi all’infuori di lei potrebbe farlo riflettere sulla pericolosità e sull’indecenza che il fatto in sé rappresenta in un posto dove anche respirare vuol dire rendere conto?

        All’alba di quella mattina, dopo una notte insonne, Maria si apposta presso la porta della camera di Nino e quando lo sente arrivare gli intima di aprire. Lo investe subito con tutto il furore e l’astio che ormai si è annidato nel sangue, ma Nino, pur con il muso lungo e il volto teso, finge di essere impegnato con gli indumenti da lavoro che devono prendere il posto di quelli che ha addosso. Quando Maria gli dice che se non smette di frequentare “le buttane” lo  caccerà via di casa, lui risponde che  può andarsene anche subito.

Maria nan ci visti chiù, sente improvvisamente qualcosa incepparsi nella gola che impedisce il passaggio al suo respiro costringendola a tossire più volte in modo secco e stizzoso. Poi, con la voce rauca, gli occhi arrossati per lo sforzo di liberare la gola strozzata, riprende le sue minacce.

Nino, non solo dichiara che non lascerà Carmelina, ma aggiunge che quanto prima la sposerà perché è la sua fidanzata. Gli occhi di Maria, allibiti, si dilatano: la dichiarazione di Nino le sembra così madornale da coglierla impreparata come un’improvvisa aggressione di spalle che in un batter d’occhio paralizza corpo e mente. Fidanzata? Questo parla di fidanzata? Ma allora non ha capito ancora che quella è una puttana e una puttana non può essere una fidanzata?!

Mentre il sangue divampa sul suo volto macchiandolo di chiazze rosse e le labbra si colorano di  viola  Maria, con la rabbia di chi intuisce di star  perdendo la partita, si scaraventa su Nino nell’estremo tentativo di aggredirlo e suonargliele, come  faceva quando erano tutti piccoli e quando capiva che l’unico modo efficace per ottenere obbedienza  e stabilire la sua autorità  era quello di ricorrere alle mani o alla scarpa.  Nino d’istinto si svincola e le dà uno strattone. Maria fuori di se, guarda suo figlio e con tutta la voce che le resta in gola, gli urla in faccia la sua disperata sconfitta:

“Disgraziatu, facchinu, tu vuoi mascariari a fàccia di ta soru e di ta frati, ma si fai na cosa di chista, na sta casa nan ci trasi chiù  mancu quannu sugnu morta”.

 Nino non si lascia intimorire, comincia a raccogliere la sua roba, la carica su una carriola e la porta al deposito dove lui è il responsabile. Prende il materasso, la brandina, qualche masserizia e sistema il suo angolo nel pianterreno del locale.

 

 

Sono trascorsi alcuni mesi da quel drammatico giorno e Maria continua a credere e sperare che un giorno o l’altro suo figlio tornerà a casa. Prima o poi si renderà conto in che guaio si è cacciato e d’altronde i pastori, finita la stagione  torneranno ai loro paesi, Carmelina seguirà il suo destino e tutto tornerà alla normalità anche se con una toppa al posto dello strappo.

“Sulu cu a morti nan c’è riparu”, dice a se stessa e il suo pensiero corre alla guerra e al danno realmente irreparabile che le ha procurato. “Si ci fussi ta pa, sta cosa nan succidiva – aveva urlato a suo figlio quella mattina – pirchì ta pa a st’ura t’assi stuccatu i jammi, e a sa pezza di buttana c’iassi iutu a rùmpiri u battisimu”.

Nino, anche se spaventato, sa di poter avere la meglio sulla madre che comunque è una donna, e con un contegno da uomo che non vuole interferenze nella propria vita, se n’è andato senza ascoltarla.

Anche un ferroviere anziano ha fatto la prova di persuasione illustrandogli una infinità di rischi che corre mettendosi con gente sconosciuta e senza scrupoli, e che lui, essendo ancora un ragazzo, ha sottolineato il ferroviere, non può presentire. Non c’è stato niente da fare; Nino è rimasto fermo sulle sue e Maria deve piegare il suo orgoglio a quella decisione che altro non è se non la dimostrazione che suo figlio è stato deviato e dunque voltato dentro e fuori.

A lei non resta che ascoltare il consiglio dei suoi figli e dei suoi familiari: aspettare. Aspettare che Nino apra gli occhi a constatare da solo la realtà, che si spaventi, si ingelosisca, si stanchi e anche lui finisca col dire ciò che dicono tutti “falla comu vuoi, sempri buttana jè”.

                                                              

                                                       

IV

 

 

La proposta era arrivata da un amico di qualche anno più vecchio: “ci andiamo da quelle qualche sera ?” Nino subito aveva creduto si trattasse della solita frase buttata così, tanto per dire con spavalderia qualcosa di piccante.

Con la fantasia aveva volato mille volte da “quelle”, ma senza una compagnia di sostegno mai avrebbe avuto la forza di oltrepassare quella soglia  proibita.

Ora l’amico aveva lanciato l’idea con il tono di fare sul serio, spettava a lui raccogliere quella che nella sua mente considerava una sfida. “Il resto viene da sé” aveva dichiarato, complice, l’amico, e malizioso aveva aggiunto:

“cu du sordi, unu si passa u piaciri”.

 

 

Nino non aveva ancora scoperto ciò che per lui era mistero fitto: la donna.  Niente lasciava intravedere che la cosa potesse in qualche modo considerarsi imminente e il pensiero che fosse arrivato il momento di superare quel traguardo, usufruendo dell’opportunità di una presenza amica, lo seduceva da un lato, lo impauriva dall’altro. Le uniche donne conosciute erano le solite, serie e inaccessibili anche alla fantasia, intoccabili come reliquie sacre: anche guardarle più del dovuto poteva essere causa di un richiamo da parte di fratelli, mariti o padri.

Schivo e riservato, egli era uno di quei ragazzi che si definiscono a modo. Alto e snello ma di forte corporatura, anche per via di un lavoro faticoso, si poteva considerare un bel ragazzo. L’educazione rigida e la responsabilità di essere l’appoggio morale ed economico della famiglia già dall’adolescenza, ne avevano fatto precocemente un uomo. La sua prima giovinezza appesantita da quel ruolo lo avevano reso taciturno e senza grilli per la testa: “parla poco per non spostare l’aria”, si diceva di lui alludendo alla sua indole tranquilla con una propensione alla malinconia.

La madre e le sorelle contavano su di lui per ogni situazione, e lui doveva essere sempre presente come unico uomo in famiglia per la quale aveva ricevuto tante raccomandazioni.

Adesso era giunto il momento di pensare un poco a se stesso, concedersi uno svago dopo anni di duro lavoro (quintali e quintali di carbone da caricare e scaricare ogni giorno alla stazione), approfittando di un’occasione che poteva essere irripetibile, tenendo conto, inoltre, che le donne, senza fissa dimora, oggi c’erano e domani chissà.

“A vent’anni – aveva sottolineato l’amico per vincere la sua reticenza – un uomo si deve concedere certe cose, altrimenti che uomo è?”

 

  

Le donne non erano particolarmente attraenti, ma Nino, forse per l’esasperante attesa dei giorni precedenti, rimase turbato più del necessario.

Eppure, aveva sentito parlare della cosa, da uomini che l’esperienza l’avevano vissuta, con l’indifferenza di chi ha bevuto una bibita sconosciuta che dopo averla gradita non ci pensa più. Lui invece ci pensava e anzi gli era rimasta qualcosa che ronzava dentro come un tarlo che lo distraeva e lo disturbava ad ogni ora del giorno e della notte.

Chiacchierando con una delle due, durante i preliminari, Nino era venuto al corrente che da lì a qualche settimana sarebbero andate via e se voleva, prima della partenza, poteva tornare a salutarle. Era la prima volta che sentiva tanta calorosa attenzione rivolte alla sua persona, come se essere richiesto, e perciò gradito, significasse una simpatia e un apprezzamento individuale che innalzava il livello di uno squallido rapporto tra cliente e donna di vita. Non volle e non seppe riflettere, e dunque non se lo fece dire due volte.

Nel commiato, colei con la quale si era intrattenuto, lo aveva invitato ad andarle a trovare a Raddusa dove avrebbero soggiornato qualche tempo. E Nino era andato a Raddusa, piccolo paese a pochi chilometri, che dava loro, come Dittaino, la certezza di nessuna concorrenza.

Così, la vita di Nino fatalmente prese un’altra direzione. Con Carmelina, di dieci anni maggiore e dall’apparenza ancora più vecchia della sua età, Nino faceva coppia fissa. Cominciò una vita quasi da pendolare, e nel paese dove lei “lavorava” trascorreva di tanto in tanto qualche giorno e qualche notte.

Ormai era invaghito della donna, e come succede alle anime sensibili e delicate egli voleva farne una donna “normale”, strapparla a quel giro infame e per riuscirci sarebbe stato pronto anche a sposarla. Forse perché lei lo aveva incoraggiato e anche sperato, forse perché lui, ingannato dalla passione e dall’ardore dei suoi vent’anni, l’aveva creduto, fatto è che si era lanciato anima e corpo alla realizzazione di quel progetto, al punto da rompere il rapporto, di colpo divenuto sbiadito e inconsistente, con la sua famiglia, per inoltrarsi verso un legame naturale ma diverso, intenso e speciale che finalmente lo portasse a quella felicità che ogni essere umano comincia inutilmente a inseguire fin dalla nascita.

Entrambi non avevano fatto i conti con “l’amante del cuore” di Carmelina, il tizio di cui si era innamorata in giovane età, che l’aveva instradata a quella vita dalla quale non sarebbe stata mai capace di svincolarsi, per quella  paura che egli le incuteva tra minacce di violenze e chissà quali vendette.

Tutte le volte che Nino si imbatteva in lui, finiva in alterco. L’uno diceva di non frapporsi al progetto di portarsi via Carmelina, e l’altro rispondeva di non intromettersi più del necessario tra una coppia che stava bene così.

L’odio tra loro, per la reciproca gelosia, era sempre sul filo di lana.

“Se ti va bene, quando vuoi venire vieni, paghi e te ne vai senza rompere le scatole, hai caputu?”

 

 

V

 

 

L’estate è ormai lontana.

L’inverno, nel pieno delle sue giornate piccole e fredde, non concede tregua. Da giorni piove con monotonia e i rigagnoli, ingrossandosi, corrono veloci e si dividono per abbracciare e travolgere fragili ostacoli da trascinare via. La valle è molliccia, la terra, satura, fa fatica ad assorbire altra pioggia e ogni passo diventa impronta che rimane in superficie.

Le prostitute da tempo hanno preso il largo e anche i pastori sono rientrati nei loro “ovili”. La stazione è immersa nel suo tempo e nel suo spazio, interrotti soltanto dal treno e dall’incredibile movimento che scuote l’aria ad ogni passaggio. Il resto è consuetudine, previsione. Solo Maria, che ha aspettato fiduciosa l’inverno perché desse una svolta alla situazione, registra il suo smacco: ora suo figlio va a trovare l’amica con la regolarità di un marito, e dunque la tresca con la “donna del pagliaio” continua. Anche a “mano di legge” è impossibile intervenire perché Nino è maggiorenne.

 

 

E’ la notte del 3 gennaio 1952.  Ha smesso di piovere. Un vento leggero ma gelido fa rabbrividire gli alberi di eucalipto che si ergono striminziti sul piazzale della piccola stazione. Non è ancora l’alba, da lì a poco arriverà il treno da Valguarnera e sul binario deve essere pronta la coincidenza per Catania.

Qualcuno bussa freneticamente alla porta di Maria: lei si sveglia con un sussulto, si alza, si avvolge in uno scialle e si avvia alla porta. Anche Teresa e Sara si svegliano e tendono l’orecchio per capire dalla voce di chi si tratta.

Al cu iè? di Maria la voce di un uomo risponde: “Zia Cuncittì, Luigiu  sugnu! Aiu vinutu a chiamari a Ninu”.

Maria, rassicurata dalla voce dell’amico di suo figlio, apre la porta e chiede come mai viene a chiamarlo da lei sapendo bene che Nino da tempo non dorme più a casa.

Luigi, con voce concitata, comincia a dire che Nino quella mattina non si è ancora presentato al lavoro; il treno, pronto per essere rifornito di acqua e carbone, e partire per Catania, è fermo sul binario in attesa. Alla stazione c’è scompiglio e il capo stazione, furente, non sa a quale santo aggrapparsi. Nino potrebbe pagarla cara se non arriva subito. Erano stati a cercarlo al deposito e avevano visto il letto intatto. Credeva, l’amico, di trovarlo con certezza da Maria e manifesta tutto il suo stupore per quell’ipotesi rivelatasi infondata.

E’ facile supporre che possa essere dalla “sua” donna, ma era stato visto la sera prima e dopo una certa ora treni non ne partono più. Dove poteva essersi cacciato?  A Valguarnera dalla sorella era impossibile, perché dopo la “scelta” di continuare la sua storia, le sorelle rifiutavano di vederlo. L’unico indizio preoccupante ad emergere è quel letto rimasto intatto.

Difficile credere che Nino si assenti per uno o più giorni senza preavviso, sa quanto il suo lavoro non sia da prendere alla leggera, e dunque non resta altro da pensare se non a un imprevisto grave che adombra di timore l’animo di tutti.

Il treno infine parte con molto ritardo nell’indignazione generale, Maria, contrariata, cerca di riordinare i suoi pensieri, mentre un debole raggio di sole lotta in cerca di uno spiraglio per attraversare le nuvole e dare vita al nuovo giorno.

 

 

Domande senza risposte, supposizioni e paure, nei giorni che seguono, si alternano nei discorsi degli abitanti, in quelli dei passeggeri e in ogni persona che conosce il ragazzo. Maria, non resiste oltre, non le sembra giusto aspettare che il destino resti inerte, mentre lei vive nell’inferno.

Quella mattina si alza in preda a una smania che non riusciva a calmare. “Basta aspettare – dice alle ragazze – vado dai carabinieri” e sale sul primo treno diretto a Valguarnera.

 Una volta in caserma il comandante la informa che essendo Dittaino sotto la giurisdizione di Assoro, la denuncia deve essere fatta in quel paese. Maria è decisa a non lasciarsi scoraggiare e comincia la sua lunga giornata tra attese, speranze, stanchezza, e sconfitte: ore di attesa per il treno diretto ad Assoro, altre ore per fare la denuncia ed essere ascoltata dal comandante dei carabinieri, ritorno alla stazione e scoprire che treni per Dittaino non ce ne sarebbero stati fino al giorno dopo.  Ma ormai nulla e nessuno la spaventa, sente di aver fatto qualcosa di indispensabile a far partire le ricerche e di sicuro tra qualche giorno si verrà a capo del mistero e suo figlio tornerà a casa.

Dopo la denuncia ai carabinieri di Assoro, Maria si ritrova seduta sulla panca nella sala d’aspetto della stazione del piccolo paese, dove trascorrerà l’intera notte al freddo, con una luce fioca che rende sinistro l’ambiente, pregando la madonna di far passare presto quelle ore, la tensione fino allo spasimo la tiene all’erta ad ogni rumore, ad ogni movimento. L’ultimo ferroviere l’ha tranquillizzata che nessuno l’avrebbe importunata e poi lui abita con la famiglia nei pressi della stazione e se avesse avuto bisogno, poteva chiamare o bussare alla sua porta senza timore, in qualsiasi momento. 

Il freddo lo sopporta con forza: alla fame e alla stanchezza non da alcun peso. La sua mente, completamente assorbita dagli interrogativi e dal ripristino di momenti vissuti prima di quel giorno, andava alla ricerca di qualcosa che sembrasse sospetto: un volto, una parola, un atteggiamento di Nino negli ultimi giorni, quando era venuto a tagliare la legna per la stufa o quando aveva preso le camicie stirate che le sorelle gli preparavano. Ma niente era degno di attenzione, volti e immagini erano i soliti da decenni, ripetitivi e abitudinari.

All’alba, finalmente, riparte per Dittaino. Il cuore le dice che in quel giorno e quella notte di calvario, a casa troverà buone notizie e anzi sicuramente troverà anche Nino. Le sembra così logico che, dice a se stessa, non può essere altrimenti; studia l’atteggiamento da adottare e le parole da dire quando si troverà davanti quel figlio sciagurato. 

Solo quando giunge a casa, e scoperto che nessuna nuova ha mutato l’orribile ordine delle cose, Maria si butta sul letto e lascia che le fibre si allentino per trascinarla in quel pianto dal quale era riuscita a sfuggire fino a quel momento. Finalmente, può dare sfogo allo sconforto desolato che lacera il suo petto.

 

 

I giorni passano cupi. Ora c’è  Franco, il poliziotto, giunto da Parma, a dare un po’ di forza e coraggio a Maria e alle due ragazze. La sua presenza potrebbe essere valida anche ai fini delle ricerche; la polizia, si spera, farà di più anche per un rispetto verso il collega. Le indagini, le ispezioni e gli interrogatori si intrecciano, ma cadono nel vuoto come bolle di sapone che si gonfiano, brillano per un momento e al contatto con l’aria si sciolgono. Non una traccia o un indizio che portino a una pista, a un movente. Nessuno sa, nessuno ha visto, nessuno ha sentito: ormai c’è anche qualcuno che pur vedendolo tutti i giorni, prende le distanze, come a volersi proteggere da una faccenda troppo grave e oscura in cui basta una parola mal pronunciata per esserne coinvolti, dichiarando di conoscerlo appena e anzi non sa neanche come si chiama: “Stava a Dittaino? A mia mi pariva chi stava a forestieri e viniva sulu a travagghiari. Siccomu u viriva chi stava sulu…”

 

 

VI

 

 

     La presenza di Franco è l’unica forza che Maria sente sotto i suoi piedi. Il resto è vuoto. Teresa e Sara si muovono per la casa come automa, evitando ogni rumore che nell’atmosfera evanescente che regna ormai da un mese, potrebbe amplificarsi e infastidire come rombo assordante che fa saltare i nervi.

Mangiare, dormire, parlare è difficoltoso in quanto gesti normali, troppo normali perché si svolgano con normalità in quella casa dove il clima è diventato così fragile da essere infranto anche da un passero che si posa sul davanzale a fischiettare.

Si formulano mille ipotesi ma nessuno ha l’ardire di accennare, come fosse un malaugurio, al peggio.

L’inverno continua la sua strada: pochi giorni di sole e la pioggia riprende continua o a intermittenza. Il suo rumore cadenzato è sovrastato, di tanto in tanto, dall’arrivo del treno che fischia in lontananza e sbuffa con bonaria autorità man mano che si avvicina. Impossibile sottrarsi al piacere di tendere l’orecchio per accompagnarne il percorso a rilento fino a fermarsi davanti al piccolo fabbricato della stazione: i suoni di vita prorompente che produce, rincuorano per la rassicurante sensazione di certezza che diffonde. Il treno parte, torna, riparte e ritorna, indifferente al freddo, al vento, e alla pioggia: indifferente alle pene, ai travagli e alle angosce dell’umanità.

 

 

Quel sabato mattina, un contadino della zona decide di avviarsi, a piedi, verso casa: cammina ai margini del fiume Mulinello, guardando con attenzione dove l’acqua, trovando il terreno pianeggiante, si allarga e assottigliandosi gli avrebbe permesso di attraversarlo. Cammina silenzioso per il viottolo che ha percorso centinaia di volte, quando a un tratto scorge una scarpa che esce da un lembo di pantaloni. Inorridito si avvicina e scopre trattarsi di un corpo completamente sepolto dall’argilla che costituisce la sponda del fiume. Corre a denunciare il fatto e gli viene intimato di non diffondere la notizia prima del sopralluogo della polizia.  

E’ da poco passato mezzogiorno, Teresa sta apparecchiando la tavola, Sara piega la biancheria per stirarla, Franco dopo pranzo sarebbe andato ad Assoro per chiedere notizie ed eventuali novità. Maria rammenda nell’angolo accanto alla finestra, assorta nel suo orribile sgomento. 

La porta vibra sotto i colpi di un battito discreto ma sicuro: è un carabiniere di Assoro. Franco lo invita a entrare, ma l’uomo risponde che preferisce parlargli in disparte. Franco esce, il collega lo prende sottobraccio e lo porta dietro la casa. Dice subito che il corpo di Nino è stato rinvenuto, ed ora tocca a lui andare sul posto per il riconoscimento. Franco dice a casa di mangiare anche senza di lui e si avvia verso la stazione dove l’aspetta il comandante dei carabinieri di Assoro.

 

 

Così la cronaca del tempo parla del ritrovamento:

“…E’ stato ritrovato il corpo del giovane scomparso a Dittaino, a distanza di trenta giorni, in un punto lontano circa centocinquanta metri dagli alloggi del personale della stazione: il cadavere presenta cinque ferite da pugnale, delle quali due avevano reciso la carotide. Non si conoscono gli uccisori e il delitto sembra uscito da un libro di Agatha Christie.

Il cadavere fu trovato verso mezzogiorno semisepolto nell’argilla della sponda del fiume opposta alla stazione. I carabinieri durante le loro precedenti ricerche erano passati e ripassati più volte da quel luogo senza però accorgersi di nulla. Se non fosse stato per la pioggia caduta durante la notte, la quale aveva sgretolato l’argilla mettendo a nudo parte della stoffa dei calzoni che il morto indossava, forse ancora adesso il cadavere si troverebbe sepolto. Alla stazione corre voce addirittura, che i carabinieri lo abbiano rinvenuto dietro indicazione di una misteriosa lettera anonima, ma la notizia è stata smentita dalla parte interessata.

Il ragazzo giaceva a testa in giù alla sponda del fiume, alta perpendicolarmente, in quel posto oltre due metri. Era ricoperto in taluni punti da uno strato di oltre trenta centimetri di argilla. Conficcati interamente nell’argilla erano la testa e il collo. Per rimuovere il corpo fu necessario ricorrere a un mulo: attaccato per le estremità alla bestia, il corpo fu estratto e depositato in un campo di grano accanto alla sponda.

Le ferite risultarono soltanto dopo che il corpo venne ripulito dall’argilla che ancora lo ricopriva. Il cadavere nell’insieme non era troppo putrefatto, malgrado la morte risalisse a trenta giorni prima: l’argilla l’aveva ben conservato. Il volto era color cioccolata per via della posizione del corpo, che aveva fatto confluire tutto il sangue alla testa.

Furono riscontrate cinque ferite da pugnale: una aveva sfregiato la guancia destra, due entrambi i polsi e due il lato destro del collo. Una di queste ultime costituiva addirittura come uno squarcio giungendo fino al pomo d’Adamo.

Il delitto sarebbe opera di più persone, inquantoché il ragazzo di alta statura e di corporatura robusta, avrebbe potuto tenere facilmente testa a un solo aggressore.

La ricostruzione più logica sarebbe la seguente: Nino sarebbe stato attirato sulla sponda del fiume dai suoi assassini che, o avevano un appuntamento con lui in quel posto, oppure lo invitarono a seguirli mentre lui era intento a caricare il carbone nella locomotiva.  E’ da escludere che il giovane possa essere stato ucciso sul luogo di carico del carbone e poi trasportato sulla sponda del fiume: nessuna traccia di sangue era stata rinvenuta in quel posto, né gli assassini avrebbero avuto tempo per agire.

Giunti sul luogo, dove doveva avvenire il delitto, uno degli assassini, armato di pugnale, ne inferse un colpo alla guancia destra del ragazzo – o l’aggressore è mancino oppure il colpo fu inferto da uno che stava o a tergo o al fianco destro della vittima – che istintivamente si coprì il volto con entrambe le mani. L’altro, allora, colpì ai polsi e quando il giovane istintivamente abbassò le mani tornò a colpirlo alla gola due volte. La morte dovette essere istantanea. Infine gli uccisori collocarono il cadavere sulla sponda del fiume coprendolo di creta.

Il delitto è intanto il fatto del giorno in tutta la zona: Assoro, Leonforte e Dittaino

Non si parla che di esso. Specialmente ad Assoro dove la vittima era conosciuta da 

 molti come un giovane a posto.

Fino ad ora nessun fermo è stato effettuato dai carabinieri”.

 

 

E nessun fermo sarebbe stato effettuato neanche dopo. Carmelina trattenuta in carcere parecchi giorni, insieme al suo amante, fornisce un alibi incontestabile, ottenendo il “non luogo a procedere”. Il caso sarebbe stato archiviato e nessuno avrebbe scontato la colpa per aver stroncato la vita di un giovane colpevole solo di aver creduto a un’illusione. Il delitto di Nino rimase nella testa di Maria come un buco nero che si produceva ogni volta che il suo pensiero correva a quel figlio sventurato. E il pensiero a quel figlio sarebbe corso ogni giorno e ogni notte per il resto della sua vita, consolata solo dalla costante preghiera che gli porgeva in segno di perdono per una disubbidienza che invece il destino, cieco e inesorabile, non  aveva perdonato.