L’OMICIDIO GAROFALO

UNA CONFESSIONE INASPETTATA

Esercitavo l’attività professionale da undici anni e potevo vantarmi di essere riuscito a conquistarmi la fiducia e la stima dei miei concittadini, i quali trovavano in me, più che l’avvo­cato, l’amico e il confidente.

Le vicende più ingarbugliate che si verificavano in Val­guarnera, paese agricolo e, all’epoca, di civiltà prevalente­mente contadina, venivano sottoposte al mio esame.

In genere, i miei consigli erano tenuti in seria considera­zione. La gente, consapevole della mia obiettività, ascoltava i miei suggerimenti e li metteva in atto, accettandoli anche quando il mio parere non era del tutto a loro favorevole.

Un pomeriggio di un giorno freddoso e piovoso della pri­ma decade di gennaio del 1957, vengo a conoscenza di un fatto singolare.

Un certo Giovanni Ieni, contadino cinquantaduenne di Valguarnera, soggetto spesso ad attacchi epilettici, sentendosi male e ritenendo che la sua morte fosse vicina, confessa alle guardie giurate Manusè Ignazio e Davì Giuseppe, che era sta­to lui ad uccidere il maresciallo Giuseppe Garofalo, la sera del 6 settembre 1951, delitto per il quale era stato ritenuto re­sponsabile, invece, Salvatore Di Maria di Giuseppe, nato a Valguamera il 24 luglio1915.

In effetti, subito dopo l’uccisione del maresciallo, erano stati arrestati e rinviati a giudizio Salvatore Di Maria, materiale esecutore del delitto, per concorso nello stesso delitto il fratello Stefano, nato a Valguarnera il 18 maggio e Lorenzo Draià di Giuseppe, nato a Valguamera il 20 settembre 1923.

A seguito di regolare giudizio, il 30 aprile 1953, dalla Corte di assise di Caltanissetta, convocata in Enna, presieduta dal dott. Tommaso Toraldo, giudice a latere il dott. Carmelo Conti, con l’ausilio di sei giudici popolari, era stata emessa sentenza in virtù della quale i fratelli Di Maria, ritenuti responsabili dei delitti loro ascritti, venivano condannati alla pena dell’ergastolo, ed inoltre il Salvatore all’isolamento diurno per mesi sei, e in più a tutte le altre pene accessorie al risarcimento dei danni in favore delle parti offese, mentre il Draià Lorenzo veniva assolto per insufficienza di prove.

Caso del tutto strano, veniva ordinata la confisca della palla di piombo, trovata sul luogo del delitto, e la restituzione al Draià del fucile cal. 12 che, secondo l’opinione della Corte, sarebbe stata l’arma del delitto.

Avverso a tale sentenza, proponevano appello gli imputati

La Corte di assise di appello di Caltanissetta, in data 29 aprile 1954, pronunziava la sentenza, che, in riforma di quella impugnata, assolveva Stefano dal delitto di omicidio e, eliminate nei confronti di Salvatore le aggravanti della premeditazione e dei motivi abbietti, lo condannava, anche, quale colpevole del porto abusivo del fucile, che non era stato confiscato, ad anni ventiquattro di reclusione e lire 10.000 di multa, sottoponendolo alla libertà vigilata per un periodo non inferiore a tre anni.

Ricorrevano avverso a tale sentenza sia il Di Maria che il p.m.

La Corte di cassazione, con sentenza del 28 ottobre 1955, rigettava ambedue i ricorsi, condannando ciascuno dei ricor­renti al versamento di lire 10.000 nella cassa delle ammende.

Con tale sentenza, il caso di Di Maria veniva dichiarato definitivamente chiuso e l’interessato relegato a scontare una colpa non sua, presso le carceri di Favignana.

Non è a dirsi che i fratelli Di Maria non siano stati valida­mente assistiti durante i tre gradi di giudizio. La loro madre, Carmela Casale, sicura della innocenza dei suoi figli, ma pri­va completamente di mezzi finanziari, aveva iniziato una rac­colta porta per porta in tutte le case di Valguamera, per racimolare la somma necessaria ad assicurare una valida difesa.

I valguarneresi, conoscendo la famiglia Di Maria, compo­sta di individui onesti e lavoratori, non fecero mancare la pro­pria solidarietà e generosità, per cui la Casale, dopo avere ac­cumulato una congrua somma, aveva affidato la difesa dei fi­gli agli avvocati ritenuti i migliori del meridione d’Italia ed esattamente Porzio e De Marsico del foro di Napoli.

Per arrivare alla assoluzione di Stefano Di Maria in secon­do grado, ed alla riduzione della pena per Salvatore dall’erga­stolo dovettero certamente dare prova di una grande capacità oratoria e della conoscenza di tutte le possibili argomentazio­ni giuridiche.

Però, di fronte a giudici prevenuti, specie in quel processo indiziario in cui l’assoluzione avrebbe dovuto essere un fatto scontato, sia in primo che in secondo grado, ogni richiesta e argomentazione dei difensori risultava del tutto inutile, com­presa l’istanza, purtroppo respinta, di ispezionare i luoghi del delitto (dove sarebbe stata possibile la ricostruzione dei fatti e la prova della innocenza degli imputati, perché suffragata da elementi esistenti nelle carte processuali).

Quello dei Di Maria è uno degli esempi tipici di processi indiziari, in cui il magistrato, per una certa deformazione professionale acquisita nell’arco degli anni, che lo rende insensibile di fronte alla disperazione altrui, applica alla rovescia il principio «in dubio pro reo» e, quindi, va alla ricerca non del «vero colpevole» ma di «un colpevole».

Tali considerazioni potranno meglio essere valutate in prosieguo, allorché si avrà la completa visione dello svolgimento dei fatti e del modo in cui vennero condotti i procedimenti giudiziari.

Comunque, dei fatti raccontati dallo Ieni viene messo conoscenza Stefano Di Maria, il quale si reca immediata dai carabinieri per esporre l’accaduto. Questi, a loro volta riferiscono al pretore di Valguamera, Vincenzo Palmegiano al quale chiedono suggerimenti sul modo di comportarsi.

 

ENTRA IN AZIONE IL PRETORE PALMEGIANO

Il dott. Palmegiano, pretore a Valguarnera da diversi anni, e precisamente dal 1953, oltre ad essere molto conosciuto per le sue doti professionali, tanto da essere tuttora definito il mi­glior pretore che abbia avuto Valguarnera, era stimato per le sue qualità umane.

Non era raro il caso in cui, dopo avere adempiuto il pro­prio dovere, condannando l’imputato secondo legge, lo man­dava a chiamare al fine di farsi raccontare le sue vicende umane e offrirgli la sua disponibilità per aiutarlo.

Spesso si adoperava per trovargli un posto di lavoro, oppu­re interveniva, anche personalmente, con un gesto di solida­rietà tendente a far comprendere come la giustizia, anche quando esercita la sua azione sanzionatoria, deve sostenere i deboli e gli sprovveduti per evitare che ricadano, il più delle volte per bisogno, nello stesso delitto.

Il dottor Palmegiano suggerì subito al brigadiere Creazzo di precederlo in casa dello Ieni per raccoglierne le dichiara­zioni.

Ed ecco quanto risulta dal verbale di interrogatorio.

«L’anno 1957, il giorno dieci gennaio, io sottoscritto brig. Creazzo Luigi, comandante interinale della stazione dei CC di Valguamera, alla presenza del collega brig. Sanfilippo Se­bastiano e delle guardie giurate Manusé Ignazio e Davì Giu­seppe, alle ore 11.20 mi sono recato nell’abitazione di Ieni Giovanni sita in via S. Elena n. 161, al quale faccio presente il motivo della mia visita.»

Ieni Salvatore, alla domanda del brigadiere, ebbe a rispon­dere: «Spontaneamente dichiaro di avere ucciso io il mare­sciallo Giuseppe Garofalo, servendomi di un fucile da caccia cal. 12, ad una sola canna efficiente, essendo stata l’altra spaccata per un qualche scoppio. Detto fucile lo avevo avuto in prestito da un certo Di Pane Filippo, di mestiere fontaniere, abitante in Valguarnera nei pressi della pescheria, credo in via S. Liborio. Il motivo che mi spinse ad uccidere il Garofalo fu determinato dal fatto che la guardia giurata Di Gregorio Giu­seppe, detto Malannata, ed il guardiacaccia Ganci Filippo, in­teso Sonacampane, mi avevano sequestrato il fucile da caccia perché sprovvisto di porto d’armi. Mi rivolsi al maresciallo Garofalo per avere restituito il fucile, ma lo stesso in modo deciso mi mandò via dicendomi: “Il fucile non te lo do.” Tale deciso comportamento del maresciallo scatenò in me un sen­timento di odio nei confronti dello stesso, per cui, dopo circa un mese dall’avvenuto sequestro, nel settembre 1951 lo ucci­si.»

«Mi armai dell’arma suddetta, prestatami dal Dì Pane, con la scusa di recarmi a caccia; mi portai nei pressi della casa del maresciallo Garofalo, in contrada Montagna, territorio di As­soro. Lì, approfittando dell’oscurità, quasi davanti alla porta d’ingresso, indirizzavo l’arma verso il Garofalo, che vedevo di fronte e senza la possibilità che lo stesso mi vedesse. Feci partire l’unico colpo in canna, a palla, colpendo la vittima al basso ventre, o meglio, quella era la direzione mirata. Subito dopo l’esplosione del colpo, mi dileguai nel buio.»

«Dalla parte della contrada Buglio, giunsi a casa e mi misi a letto. Dell’accaduto non parlai mai con nessuno. La casa in cui trovavasi il maresciallo Garofalo era illuminata elettrica­mente. Il fucile lo restituii al Di Pane, che me lo aveva ceduto in prestito. Non riconobbi nessuna delle persone che erano in compagnia del maresciallo Garofalo.»

«La cartuccia per uccidere il maresciallo Garofalo l’ho ca­ricata io stesso e come quella ne ho confezionato un’altra uguale, che è custodita in una cassetta che tengo nel piano su­periore di questa casa. Non ho mai prima d’ora confessato il mio delitto, temendo che mi arrestassero, e lo confesso ades­so perché ritengo prossima la mia morte. Non ho altro da ag­giungere. Ripeto che fui solo a commettere il delitto.»

Il verbale viene firmato alla presenza del pretore, interve­nuto sul luogo in compagnia dei vigili urbani Arena France­sco e Ferrara Giovanni.

Dopo la firma del verbale, il pretore ordina il piantona­mento di Ieni nella sua stessa abitazione, ritenendolo non tra­sportabile in ospedale; ordina pure il sequestro di una casset­ta, contenente esplosivi e bossoli di cartucce.

Dal 10 al 17 gennaio 1957, il pretore Vincenzo Palmegia­no, con una competenza e scrupolosità non comuni, raccolse una sequela di dichiarazioni, elementi e fatti, che mettevano sempre più in evidenza come la confessione di Ieni fosse ve­ritiera in tutti i minimi particolari.

Venne precisato con esattezza il punto dal quale fu esploso il colpo, cioè dal terrapieno antistante la porta d’ingresso del­l’abitazione del Garofalo, il posto più idoneo e più logico dal quale la vittima designata potesse essere colpita.

Da lì, ad una distanza di dieci-dodici metri, era possibile sparare appoggiando i gomiti sul terrapieno e mirare con tran­quillità, senza possibilità di essere scoperti e con altrettanta tranquillità si poteva puntare sul bersaglio senza temere di mancarlo.

Fu sequestrato il fucile presso l’abitazione del Di Pane, il quale, oltre a mettere a disposizione l’arma, confermò la dichiarazione di Ieni in ordine al prestito. Una seconda cartuccia, caricata a palla, rinvenuta nella cassetta, ed uguale a quella esplosa, diveniva elemento inconfutabile che la confessione era suffragata da prove obiettive e circostanziate.

Di quanto accadeva in Valguamera, il pretore Palmegiano teneva continuamente al corrente il procuratore della Repubblica, dottor Quattrocchi, magistrato molto sensibile e ricco di umanità, il quale interrogò Ieni, per avere conferma di tutto quanto verbalizzato dal brigadiere Creazzo, e testimoniato dal Di Pane.

Ovviamente, tali atti erano coperti dal segreto istruttorio ma la notizia era circolata tra la pubblica opinione con molta risonanza poiché la gente, anche se non informata dei minimi particolari, riusciva ad attingere indiscrezioni da tutti i personaggi che, per un motivo o per un altro, avevano assistito ai vari interrogatori di Ieni.

Maria Bonanno, moglie di Salvatore, mi dava, intanto, incarico di seguire gli eventi ai fini di accelerare un eventuale giudizio di revisione. Da parte sua il Di Maria, che aveva scontato già cinque dei ventiquattro anni a cui era stato condannato, anche lui a conoscenza del fatto, dal penitenziario Favignana seguiva gli eventi con trepidazione.

Domenico Blanca, “Il caso Di Maria. Giustizia e Magistratura”, Ila Palma, Palermo-Sao Paulo, 1998