Che i miei compaesani amino la musica più degli abitanti dei paesi vicini, lo sapevo già da bambino, quando mi raccontavano che a Grottacalda si distinguevano da tutti gli altri minatori perché la sera, allorché tornavano al paese, con tutta la stanchezza che avevano addosso, cantavano. Io stesso mi accorgevo che in tutti i saloni dei barbieri c’erano valorose orchestrine di chitarre e mandolini e anche di violini che incantavano gli sfaccendati.
Erano bravi anche nei cori delle chiese e delle processioni, bravi anche i ragazzi delle scuole nei cori. Ma soprattutto potevano vantare un corpo musicale di prim’ordine che veniva richiesto nei centri vicini e anche lontani. La banda era l’orgoglio dei miei concittadini che d’estate ascoltavano in massa i servizi che prestava sul palco in mezzo alla piazza, eseguendo a meraviglia pezzi impegnativi del repertorio classico e anche leggero. Che l’istinto musicale fosse innato nella mia gente lo dimostra il fatto che anche i contadini cantavano nel lavoro specialmente d’estate nell’aia, e ogni sera, quando si ritiravano dalla campagna stanchi sulle bestie stanche, alleviavano la fatica col canto, una cantilena senza parole di poche note lunghe cariche di nostalgia, echi remoti di usanze arabe. Pensavo a questa caratteristica della mia gente, mentre ero preoccupato per il fatto che la scuola secondaria, che avevamo istituito con tanti sacrifici e rischi e si era già ingrandita in quell’anno scolastico ‘45/’46, mancava dell’arredamento indispensabile e non poteva contare sull’aiuto di nessuno: non c’erano lavagne, né cattedre; i banchi, residuati delle scuole elementari erano troppo vecchi e piccoli e del tutto insufficienti. Né c’erano tavolinetti e sedie per sostituirli. Bisognava provvedere subito.
Perché non organizzare una serata musicale, una specie di varietà di quelli che trasmetteva la radio per i pochi che la possedevano?
Mi misi subito in contatto con l’amico Salvino Laurella che aveva dalla famiglia ereditato il talento musicale e ci mettemmo con entusiasmo a lavorare. Un locale disponibile, seppure non molto grande, c’era: il salone dell’Istituto Sacro Cuore. Lì c’era un palchetto per il teatrino delle educande che poteva servire allo scopo. Su quel palco, opportunamente adattato, si sarebbe collocato il pianoforte; c’era il posto per l’orchestrina e per coloro che si sarebbero esibiti, oltre che per il presentatore.
Salvino si occupò dell’orchestrina; vi facevano parte due bravi chitarristi, due violinisti (di cui uno, Maltese, era insegnante della scuola), un clarinettista, un trombettista e un bassista. S’incaricava lui di affiatarli e di istruirli ad eseguire i pezzi rispettando gli spartiti; anche se non tutti conoscevano la musica, erano forniti di buon orecchio e grande abilità.
I cantanti non mancavano tra i giovani e non mancavano i solisti specialmente di pianoforte, di chitarra e di armonica. Dopo tante prove e aggiornamenti potemmo fissare la data della rappresentazione per una sera di sabato durante il carnevale. Quella sera ci fu un’affluenza di pubblico che avrebbe riempito una piazza, altro che un salone; e il problema più grave fu proprio quello di impedire l’ingresso a quanti si accalcavano alla porta, amici e conoscenti che non volevamo respingere, e giovinastri che non si rassegnavano a restare fuori e per i quali dovemmo ricorrere alla forza pubblica. La serata ebbe inizio con l’orchestra che suonò una lunga rapsodia di canzoni napoletane, accolte con entusiasmo dal pubblico. Quindi toccò a me spiegare le finalità della serata e presentare i vari pezzi vocali e strumentali. Accanto ai motivi allora in voga, venuti con le truppe di occupazione, avevamo inserito alcune canzoni nostrane di carattere leggero e sorridente, come «Il gatto in cantina» e «Il somarello» che furono cantate in modo esilarante da mio fratello Mario. Anch’io cantai una canzone inglese incentrata su una chiesetta, «Cathedral in the pines». Non mancò il solito coro verdiano «Va, pensiero», accanto ai pezzi orchestrali impegnativi come «Brasil» e agli assolo di pianoforte e di chitarra: Gino Di Pasqua fece furore eseguendo con la sua chitarra la «Czarda» di Monti. Ricordo soprattutto l’entusiasmo che suscitò Liborio Curia con la sua armonica a bocca che faceva sembrare un organino anche quando la suonava soffiando col naso. Fu quindi eseguita la farsa ideata da Salvino, che raccontava una vicenda buffa attraverso gli strumenti i quali rappresentavano i personaggi che si scambiavano, al posto delle battute, motivi intonati alla situazione, che veniva sommariamente illustrata da me: una scenetta assai graziosa tutta improvvisata che avremmo dovuto ripetere o almeno fissare sulla carta.
Infine, anche in omaggio al Parroco, fondatore dell’Istituto ospitante e gestore della scuola, la serata, così ricca di occasioni di allegria, si concluse con un momento di commozione religiosa: sullo sfondo dell’orchestra che suonava l’“Ave Maria” di Schubert, io recitai la preghiera alla Vergine di Dante.
Se avessimo avuto più senso pratico, presi come eravamo dall’euforia della serata, avremmo approfittato della soddisfazione del pubblico per raccogliere contributi per la scuola, la quale dovette accontentarsi dei proventi piuttosto modesti dei biglietti, che, nonostante tutta quella folla, non furono tutti venduti. Fortuna che non dovevamo pagare nessuno.
Modeste erano state certamente le nostre prestazioni, quasi tutte improvvisate; ma massimo l’impegno di tutti noi giovani. Il pubblico se ne rese conto e ci premiò col suo entusiasmo e la sua semplicità, non ancora smaliziata dalla televisione e facile a lasciarsi trasportare dalla malia della musica.
Luigi Lamartina, “Voglia di raccontare”, Catania, 1991