VIA SAN CRISTOFERO

Via San Cristoforo. Il tratto che cadeva sotto i miei occhi, si svegliava di buon mattino. E si svegliava con tanta musica: “Vola, colomba bianca vola…, Binario, triste e solitario… Aveva un bavero color zafferano…”

La radio monumentale con annessi piccolo bar e giradischi era diventata accessibile a tutti, anche se pagata a rate, e tutti volevano far sapere a tutti di possederla, gareggiando nell’altezza dei toni.

Le case a pianterreno sembravano dilatarsi: lo spazio di strada davanti porta veniva pulito a dovere per ospitare stendini col bucato, tavolinetti, sedie dove le donne, dopo avere sbrigato le faccende, si sarebbero sedute per riposare o leggere i fotoromanzi a puntate, su “Sogno” o “Grand Hotel”.

IL tempo, durante tutta la mattinata, veniva scandito quotidianamente dai venditori ambulanti. Mastro Ciccio; piccolo, su gambe malferme reggeva sulle spalle un enorme cofano che sembrava dovesse schiacciarlo. Con voce roca, piuttosto bassa, “gridava” per vendere la frutta contenuta in quell’enorme cesto, fatto di canne e verghe di salice intrecciate. Non si davano soldi, il più delle volte, a mastro Ciccio; si faceva un cambio in natura: due chili di frutta equivalevano ad una “mulitura” di frumento che lui infilava dentro un sacco, rendendo il suo carico sempre più pesante, nonostante lo scemare del contenuto del cofano.

A metà mattinata, si sentiva un voce squillante: “pettini fini …”. Un enorme fagotto di tela nascondeva il venditore che lo reggeva. Chi aveva bisogno di pettini, aghi, filo, spille da balia; ma anche calzini, calze di nailon, fazzoletti, chiamava il signor Tinnirello che febbrilmente scioglieva le cocche del suo enorme fagotto, mettendo in mostra il suo bazar.

Don Giacomo arrivava in tarda mattinata col suo trabiccolo stracolmo. Vendeva tessuti “buoni” per confezionare abiti “per la domenica”, asciugamani, lenzuola… corredo che le premurose madri compravano ed accantonavano per le future nozze delle figlie, anche se ancora, queste, erano in fasce.

Durante L’estate uno scampanellio insistente annunciava il carrettino dei gelati: un trabiccolo coloratissimo con tre pozzetti chiusi da coperchi di lucidissimo alluminio, sormontato da una tenda variopinta. I pianti dei bambini che volevano comprare il gelato si confondevano con i dinieghi delle loro madri : “ogn jwrn u con!, dec lir o jwrn !?”. Alcune madri con fermezza, dovuta al fatto che non avevano la possibilità di acquistarlo; altre accontentandoli, mettevano fine a quegli strepiti capricciosi.

Due volte l’anno via San Cristoforo si trasfigurava: le radio con i dischi tacevano, i venditori non passavano. Tutto era silenzio….Gli spazzini, di buon mattino. avevano pulito tutta la strada con enormi scope di saggina e tutto l’acciottolato brillava al sole.

Era la festa del Corpus Domini . Si era già preparato ogni cosa per allestire gli altari lungo la strada: le lenzuola più belle, ricamate a mano, statuette del Sacro Cuore, vasi di vetro e di cristallo che avrebbero contenuto i fiori, tappeti, cuscini e quanto di più prezioso si possedeva o preso in prestito dai vicini.

Con bisbigliare sommesso, le donne si arrampicavano su scale a pioli per fissare ben, bene le lenzuola, posizionare i quadri, le statue, mettere al posto giusto i tanti vasi con fiori dai colori tenui, adatti all’evento.

Ad ogni altare, quanti nella strada, si sarebbe fermato “Gesù Sacramentato” per la benedizione.

Nel primo pomeriggio gli altari erano già ultimati; scendeva lentamente un silenzio pacato, surreale…la strada si era trasformata in Tempio, il Sacro si era impadronito di ogni anfratto.

A turno, le costruttrici di altari, vi si sedevano accanto a far la guardia, affinché nessuno si avvicinasse troppo. I loro visi, tirati per la stanchezza, esprimevano, però, tutta la gioia ed il compiacimento per l’esaltante risultato ottenuto: Ogni Altare della strada era “il più bello di tutti”.

Al crepuscolo, uno scoppio di mortaretti annunciava che dalla Chiesa Madre stava uscendo la processione con l’Eucarestia. I balconi erano stati parati a festa: coperte ricamate coprivano le ringhiere, barre con lampade li illuminavano a giorno, cestini colmi di petali di rose stavano in un angolo, pronti per essere riversati dall’alto, sul baldacchino che sormontava l’ostensorio.

Ed ecco arrivare, con incedere lento, il parroco che custodiva sotto i preziosi paramenti, l’Ostensorio. Era attorniato da altri sacerdoti e da una piccola folla in processione, preceduta dalla banda musicale.

Arrivata nei pressi dell’altare, la processione si fermava dando modo al sacerdote di incedere da solo… “Tantum ergo, Sacramentum, veneremur cernui”…le mani del sacerdote alzavano l’ostensorio nel silenzio più assoluto. Il suonatore dei piatti spezzava il silenzio con un colpo secco.

“Noi vogliam Dio ché nostro padre, noi vogliam Dio ché nostro re” con queste note, cui faceva eco uno scoppio di mortaretti, la processione riprendeva il cammino per fermarsi a “benedire” l’altare successivo.

Il venticinque agosto era un grande avvenimento : si celebrava la festa del Santo Patrono, San Cristoforo, appunto. Quella strada a Lui dedicata era la “sua casa” e gli abitanti accampavano quasi un diritto di maggiore “proprietà”.

Il mattino, prestissimo, si sentiva lo stridore delle scope di saggina sul selciato…San Cristoforo avrebbe dovuto trovare splendente la “sua” strada.

Finalmente arrivava il gran momento; San Cristoforo, nella sua bara era gigantesco, toccava quasi i balconi dei primi piani… un reverenziale timore si impadroniva dei piccoli, ma anche dei grandi : “San Cristofaluzz, aiutàtn vui”; la preghiera sommessa si spandeva nell’aria con fede semplice, nella certezza che il santo patrono ci avrebbe garantito la Sua protezione almeno per tutto un anno, fino alla sua prossima festa.