IL COCOMERO

          La festa di San Cristoforo era annunziata dall’arrivo dei coltellinai di Campobasso, dei giocatori di bussolotti, dei venditori di berretti, di torrone, di pipe di zucchero, di noccioline americane, di zampogne e di palloncini colorati; dei sonatori ambulanti, degli storpi che si strascicavano sul di dietro coi guantoni di cuoio e gli appoggi, le gambe sulle spalle come pezzi ortopedici, il viso atteggiato in smorfie pietose, lanciando ai passanti invocazioni che straziavano gli orecchi e facevano diventare il cuore piccino come un cece. Invece di buttar loro un soldo, per l’anima dei morti, si sentiva la voglia di fuggire. Arrivavano i cantastorie coi cartelloni a quadri vivaci e impressionanti, dove era narrata la storia della donna fatta a pezzi e del castigo che toccava infine al marito infame e feroce, o quella non meno lacrimevole e accessibile ai cuori teneri, della fanciulla che fu chiusa a viva forza in convento e morì di patimenti e sospiri, non potendo sposare il giovane amato, il quale molto non passò che per il crepacuore la seguiva al cimitero. Talvolta capitavano anche quelli del cosmorama, con la presa di Makallè, l’uccisione della regina Draga, i leoni nel deserto e il brigante Musolino finalmente ammanettato tra i carabinieri in lucerna e sottogola: con un soldo c’era da passarci delle ore e struggersi di meraviglia e di malinconia.

          In un momento, sorgevano nella piazza, allineate come in un accampamento, le tende e le bancarelle: si sentivano le voci dei giocatori, gli scoppi secchi del tiro al bersaglio, le pause piene di sottintesi dei « barilotti » e delle vincite, i prezzi, gridati a squarciagola, dei coltelli, delle striglie, delle scarpe di pelo, delle zappe, delle pistole di latta, della storia in sestine di Santa Genoveffa o della sedotta abbandonata.

          Nel bel mezzo della piazza o nei crocicchi, sul capo del venditore, ondeggiava attaccata a uno spago o ad un bastoncino, l’efflorescenza delle zampogne e dei palloncini colorati, pronta ai nostri occhi a volarsene da un momento all’altro in aria, nel magico cielo festivo. Si vedevano canestri pieni, mucchi di calia e di noccioline americane che erano continuamente presi d’assalto e smantellati. Pareva che la festa fosse fatta apposta per questo: anche le ragazze, affacciandosi sull’imbrunire ai balconi, mentre i giovanotti passavano col semprevivo all’occhiello, si mettevano dolcemente a sgranocchiare coi loro dentini bianchi di topo, lasciando cadere giù con attenzione le bucce. Erano solenni mangiate, e la sera in piazza sembrava di camminare sui resti d’un saccheggio, a ogni passo si sentivano scricchiolare gusci e ceci calpestati.

          Ma il più bello erano i cocomeri. Se ne vedevano da ogni parte a cataste; in un angolo davanti la chiesa c’era per tre giorni di seguito una vera montagna di cocomeri che si vendevano all’incanto e non finivano mai, piccoli e graziosi come bocce, enormi e mostruosi come i palloni che si facevano volare al passaggio del Santo. I cocomerai si sgolavano dalla mattina fin dopo la mezzanotte, tagliavano fette rosse come fuoco coi coltellacci, facevano tasselli e vendevano con mille allettamenti a peso o a colpo. Uomini e donne se ne stavano là davanti impalati a godersi la scena e a lasciarsi prendere pian piano dal desiderio. Bastava sopratutto che un bambino piagnucolasse o alla bella lucessero gli occhi, e il più lesto o il capo della partita s’avanzava facendo di gomiti, sceglieva lungamente nel mucchio con l’aria di chi se ne intende, contrattava in men che si dica e tornava col cocomero in alto fra le mani o sotto il braccio. Si andava subito da canto: coltello alla mano si facevano le parti; e ognuno con la sua fetta fiammante ci si strofinava tutta la faccia che diventava lustra e gocciolante, le donne con quelle righe rosee e dense giù per la bianca gola e il seno di gala con le perline, le collane, i crocifissini d’oro e i garofani. I fazzolettini poi, col merletto intorno a pizzo, piccoli come ali d’uccelli, parevano inzuppati nell’alchermes. La festa a un certo punto era proprio questa, come la calia e le noccioline: specialmente la giornata del Santo, anche per i meno ghiotti ci doveva essere alla fine del pranzo solenne il cocomero in tavola, come conclusione. Quanto più grosso possibile, simile a un mappamondo, il « porcellino d’acqua », come lo si chiamava, se ne stava in molle fin dalla mattina: gli si girava intorno, non pareva mai l’ora di vedercelo squartato davanti con la sua polpa spugnosa e rugiadosa che si fondeva dolcemente fra le labbra. Era un tripudio, finalmente, portarlo in tavola, sventrarlo delicatamente, farne tante fette quanti eravamo; riempirsi con golosità, prima che la bocca, gli occhi di tutto quel rosso che rallegrava la mensa.

         Il divertimento maggiore era all’ultimo, quando nel colmo della festa i cocomeri calavano giù a prezzi di liquidazione e andavano a ruba. Allora era uso, specialmente di certe compagnie, farsene scorpacciate fuor del paese, che restavano famose. Si vedevano a una cert’ora passare alla spicciolata, con mastodontici cocomeri scelti apposta, che facevano voltar la gente. Poi si parlava lungamente delle battaglie che ne erano seguite a colpi di bucce, del gran divorare, del sacco che se n’era fatto.

        Rientrato il Santo, dopo il fuoco d’artificio, si masticava stancamente l’ultima calia, le ragazze coi loro dolci profili d’uccello guardavano intorno disfatte e come deluse, con la ciocchetta di cedrina e i garofani appassiti sul cuore, i bambini s’addormentavano in seno alle mamme, alcuni tenendo ancora fra i labbri socchiusi il capezzolo, e mentre la banda sonava in piazza le ultime musiche, e gli ultimi bengala si consumavano lacrimando, non si vedeva l’ora di andarsene a dormire, sfiniti, con la bocca amara e la tristezza nel cuore.

***

         Se avevo un desiderio allora era quello di andare coi « grandi » a mangiare il cocomero la sera di San. Cristoforo, fuor del paese; di partecipare a quel tanto di misterioso e di memorabile che aveva l’ingenua bisboccia, soltanto per far onore anch’io alla festa, trovarmi in quella mischia a colpi di bucce, che era il più bello.

         La schiera di Nino, perché c’era lui, era ai miei occhi la più celebre; ma, alto un palmo com’ero, non mi ci volevano mai. Se riuscivo a mettermici in mezzo senza parere, al momento buono, quando comprato il cocomero, il più maiuscolo che ci fosse, bisognava incamminarsi, mi cacciavano via, e se le buone non bastavano, erano scappellotti. Fermo in mezzo alla strada e sul punto di piangere, li guardavo allontanarsi con invidia, il piacere che m’era negato prendeva nella mia immaginazione proporzioni ineffabili che mi facevano perdere quello complessivo della festa.

         Una volta, finalmente, mi fu concesso d’accompagnarli. M’ero attaccato loro dietro come un cucciolo, mi si doveva leggere così chiaramente negli occhi il desiderio che non osavo più esprimere, che Nino mi prese per la mano e disse agli altri che sarei andato con loro. Serio, non dissi una parola, ma mi sentivo tremare dalla gioia. Poiché s’intendeva che non pagavo come gli altri quel soldo o due per la spesa, in cambio avrei portato io il cocomero. Mi permisero anche questo. Era il più grosso porcellino d’acqua che si fosse mai visto; un vero pallone mi stava appena fra le braccia: lo portavo trionfalmente; rispondendo con uno sguardo di sicurezza alle raccomandazioni che m’erano fatte, tutto compreso e deciso a mostrarmi degno della partita. Si faceva sera, e sparavano già i primi mortaletti: davanti a me i “grandi” cianciavano e ridevano allegramente. Li sentivo parlare di donne, dei nomi conosciuti mi giungevano all’orecchio: rivedevo secondo il discorso il viso rosso e rustico come una cipolla di Rosa, la serva dei nonni, il dolce sguardo di mucca di Michela, la venditrice di cicoria selvatica, gli occhi verdi come un fondo di maiolica di Amina, la figlia del segretario comunale; e intanto pensavo con delizia alla grossa fetta, al bel pezzo di polpa che nel far le parti mi sarebbe certamente toccato.

         Passato il paese, s’andava verso il convento; quelli, come non curandosi più di me, allungavano il passo, correvano quasi, cominciando a sbizzarrirsi. Il peso ormai mi opprimeva, ma non volevo darlo a vedere, cercando bravamente di tener loro dietro. Prima di arrivare, la strada si faceva d’un tratto in discesa: lentamente le braccia mi mancarono, gettai un grido, cercai di riprendermi, trattenere il cocomero che mi sfuggiva da ogni parte, e cadendo a bocconi lo sentii con terrore andar giù ruzzoloni, rimbalzare, passare tra le gambe di quelli avanti e infine schiantarsi in fondo come una frittata. Vidi confusamente qualcuno corrergli appresso; alle risate seguirono delle grida, voci infuriate che accrebbero il mio smarrimento; nello stesso tempo che una mano mi rialzava, quella di Nino, l’altra mi faceva piovere fitti fitti un seguito interminabile di scappellotti. Scoppiai a piangere, ma non per questo. Sentivo un’oscura umiliazione, un senso di rimorso come per una colpa illogica e irreparabile che mi stringeva il cuore.

         Senza riconoscere ingiusto il castigo, con violenti singhiozzi. gridando a squarciagola, cercai lungamente di scusarmi, non sperando tuttavia, con segreta voluttà, d’essere creduto.

         Ormai, il divertimento era finito per tutti. Il cocomero s’era ridotto in una poltiglia, di cui non si poteva più far conto, e Nino, maledicendo alla debolezza che l’aveva persuaso a condurmi con loro, scaraventava a pedate lontano i pezzi qua e là rimasti. Decisero, per rifarsi del piacere perduto, di tornare in paese a comprarne uno ancor più grosso e bello di quello, che a quanto si poteva vedere era una meraviglia, con la polpa densa e vivida come il fuoco; ma senza più ragazzi dietro, che avrebbero guastato la festa.

         Io singhiozzavo ancora, soffocatamente; e in paese, prima che essi me lo dicessero, li lasciai quasi alla chetichella, avvilito e sconsolato, con la puerile disperazione d’aver perduto un bene inesprimibile e averlo guastato agli altri. Come un’anima in pena, solo, tra la folla festiva, in quel fantastico tremolìo di luci sospeso nel velo delle mie lacrime, sentii la festa senza scopo, assurda e irreale.

Francesco Lanza, Il Tevere, 14 settembre 1929