STORIA DI JOE

I

 

 

      Più che un timorato di Dio, Joe è un timorato di S. Giuseppe e non, come vedremo, per una questione di venerabile età, giacché il padre di Gesù è da sempre considerato vecchio, ma perché Joe è nato e cresciuto (inteso proprio) all’ombra del campanile (che non c’è) e di fronte alla fiancata della Chiesa, edificata sul picco della via che inizia dal Canale e che sovrasta in un bell’effetto d’immagine, tutta la via Garibaldi.  Anzi di più: la sua casa veniva costruita in contemporanea con la casa del Santo tra il1915 e il 1920 quando, sulla proprietà della famiglia Serra, a ridosso della futura centrale elettrica sorgeva il nuovo quartiere S.Giuseppe.

   La differenza tra le numerose costruzioni, per ovvie ragioni, è stata nei tempi di chiusura dei cantieri: le case, una dopo l’altra venivano compiute e abitate, la Chiesa dopo trenta, quaranta, cinquanta e ancora oggi dopo novant’anni, è incompleta nel rivestimento della facciata che doveva essere in marmo. Ma questo con la storia di Joe non c’entra niente

<< Parrì, ma na sta chìjsia mai sbrìan i travagghia? >>

<< S sbrìan i travagghia sbrìan macari i sord >> rispondeva il Parroco al devoto che tutti gli anni offriva parte del suo raccolto per questa causa, e per distrarlo da pensieri che finivano con un punto interrogativo, lo portava in sagrestia e gli mostrava la meraviglia delle invenzioni, unico esemplare del paese in suo possesso: la radio.

<<Un miracolo caro mio, un vero miracolo! Si sente parlare da Roma, da Parigi, anche  dall’America! L’ha inventata Guglielmo Marconi.>>

   Padre Longo oltre a essere uomo di bell’aspetto, era anche affabile, a volte affettuoso e alla mano come nessun altro sacerdote di Valguarnera. Che gli piacessero le donne, e lui a loro, come si diceva, non è pertinente alla storia e perciò non andiamo a sviscerare. Diciamo invece che come sapeva commuovere Lui durante la predica non riusciva nessun’altro: la fede, che imponeva con voce possente e autoritaria, la trasmetteva con una tale enfasi da sfociare in vere e proprie lacrime in cui  venivano sopraffatti i fedeli più fedeli, dando al Padre la certezza quantomeno di essere stato ascoltato in concentrato, religioso silenzio.

   Lontano dal pulpito era però un buontempone con un pizzico d’ironia finanche per la propria carica di medico delle anime. E questo lo rendeva più umano. Tutti concordi nel definirlo generoso, disponibile per bisogni e consigli, e dalla parte dei deboli contro i potenti. Ma era anche intransigente e lo dimostrò quella volta che un suo parrocchiano, un certo Agostino Arena, fu dato per morto in guerra e Lui celebrò la messa di suffragio (elencandone le qualità tra le lacrime) completamente gratis, dando sollievo alla vedova con tre figli. Salvo poi a restare contento sì, ma un tantino indispettito, nell’incontrare qualche mese dopo il parrocchiano vivo e vegeto. Superato velocemente lo stupore Padre Longo andò al sodo informando il recidivo che la messa gratis, in via eccezionale, può essere  celebrata per un morto, ma per un vivo non ci sono eccezioni che tengano e addirittura potrebbe essere considerato un peccato.  Meglio perciò saldare il debito e meglio ancora a prezzo pieno: “Quanto fa?” “quattrocento lire”. L’Arena versò, molto malvolentieri, la quota, non trovando di meglio per consolarsi che la simpatia consolidata del Parroco e la salvezza dell’anima, alleggerita e pronta per la prossima morte (quella vera) quando sarebbe arrivata.

 

  Joe voleva bene al Parroco e il Parroco lo ricompensava facendo qualche ’nzinga di troppo per farlo vincere nel gioco a carte con i ragazzi dell’Azione Cattolica.

  Tutti i venerdì lo mandava dalle suore del boccone del povero a ritirare le Ostie e  Joe, pur sapendo che le Ostie si mangiano soltanto dopo la confessione, non riusciva a resistere alla tentazione di assaggiarne qualcuna  scoprendo così che il sapore, vuoi per la trasgressione, vuoi perché le poteva masticare liberamente, era di gran lunga più gustoso di quando gliele porgeva il parroco con la benedizione. Impunemente continuava ad assaggiarle fino a consumarne una quantità da far trasalire Padre Longo ignaro (forse sì forse no) del consumo peccatore di Joe: “Le suore mi hanno detto di ritornare un altro giorno perché ne hanno fatte poche” si giustificava il ragazzo, sicuro al cento per cento che (mancando il telefono e l’automobile) padre Longo non sarebbe mai andato a verificare di persona: il boccone del povero era così distante! E il  “peccato”di Joe si assolveva sempre, senza penitenza.

 

 

    Joe non provava alcuna attrazione né per la festa di Natale perché fa freddo e si sta rintanati, né per quella di S.Cristofero perché fa caldo e si boccheggia: Joe aspettava con ansia solo quella di S.Giuseppe che  invece  cade giusto due giorni prima dell’arrivo della primavera alla quale viene di diritto riconosciuta la rinascita della natura in tutti i sensi.

  Per  S. Giuseppe, sinonimo (a Valguarnera) di primavera, come primavera sinonimo di S. Giuseppe,  si  intrecciavano una serie di avvenimenti che andavano dall’eliminazione discarfaturi e conca  (nonché gli avanzi del g’nìs), da relegare, con sollievo, negli angoli più nascosti della casa, all’imbiancatura delle pareti offuscati da un inverno di fuoco e fumo; dalla riappacificazione con parenti che avevano a fungia per quella parola scappata, giust giust, senza volerlo, all’invito a pranzo del compare con tutta la famiglia; dall’arrivo dell’emigrante che si distingueva proprio perché arrivava in quella festa anziché a S. Cristofero come gli altri, all’acquisto del copriletto da mettere  in quel giorno che grazie all’imbiancatura delle pareti risaltava meravigliosamente: “…m’hai l’vàt sa dica: aviva chiù di du anni ch m l’àv’ra cattar: quann v‘niva quarcun m v’niva a v’rvogna cu sta cutra tutta smuntata”.

 

    A Valguarnera, a differenza di tanti altri paesi, le grazie non le fa il patrono S. Cristofero, anche se è rappresentato in una gigante immagine in piastrelle di maiolica di Caltagirone, sulla parete del palazzo in pieno centro storico, e del resto non gliele chiede nessuno. Questo non si deve prendere come una mancanza di fiducia, ma piuttosto come un senso di pietà mista a soggezione per via del peso di quel globo che regge sulle spalle e dell’espressione del volto stanca e implorante che toglie a chiunque il coraggio di appesantirlo ulteriormente con richieste di grazie dal sapore quanto mai inopportune: n’avi tanti di so, mancu pi ‘ncuiatarilu

   Ci sarebbe S. Antonio da Padova e ancora S. Francesco come Santi a cui rivolgersi, ma il primo essendo a Padova sembra troppo lontano e il secondo essendo protettore degli ubriachi si preferisce lasciarlo in pace  evitando così il rischio di  essere confusi con la categoria.

   S. Giuseppe non solo è notevolmente in testa alla classifica, ma ancora oggi nel paese modernizzato, non vi sono segni di cedimento anzi, col tempo si è guadagnato anche la stima incondizionata dei morenti che, dicono, lo vedono e lo sentono vicino nel momento difficile del trapasso. S.Giuseppe è un Santo buono, lavoratore onesto, padre di famiglia, rappresentato solitamente in compagnia della moglie e del figlio e questo lo rende umile, accessibile, insomma più vicino alla gente disperata.

   S. Cristofero gode di una festa lunga tre-quattro giorni e se può, con qualche avanzo di bilancio, il comune la fa durare anche una settimana.

   S. Giuseppe invece ha una festa che dura solo un giorno, ma è così intenso da non concedersi  interruzioni nemmeno nella pausa pranzo, tanto è numeroso il popolo da Lui graziato.

  La festa comincia presto con i “miracoli” di coloro che per non dare spettacolo portano in dono a ndorcia o a sacchina di grano, prima che tutta la gente si riversi nel percorso che porta alla chiesa.   Per quanto volessero passare inosservati a Joe, con le orecchie tese, non la facevano. Egli si affacciava e li osservava fino alla scomparsa dal sagrato. A volte li contava uno a uno.

  Il più bello aveva inizio intorno alle dieci e per lui avveniva sotto casa.

  Lo spettacolo più pittoresco era, ed è, costituito dai muli carichi di frumento che arrivano ansimando per lo sforzo dell’ultimo tratto in vertiginosa  salita che conduce alla meta, tenuti a bada dal padrone e da parenti che per l’occasione offrono il loro appoggio. Se si aveva, allora come ai giorni nostri, la pazienza di aspettare il proprio turno, si poteva usufruire, naturalmente dietro offerta, della bardatura che il Parroco metteva a disposizione per ornarli con  pennacchi variopinti, paraocchi con borchie dorate, barduna  con frange e giumma, prezioso drappo coprischiena, che non fosse perché i muli si spazientivano e recalcitravano (per tutto il percorso) come i muli che erano, avrebbero potuto godere, almeno in quella circostanza, di essere, approssimativamente, paragonati ai cavalli della guardia svizzera.

  Poi c’era l’uomo scalzo con solo le mutande bianche di tela, preceduto e seguito da un codazzo di bambini con le facce serie per l’immagine di quella persona che evocava, seppure vagamente, Gesù che va sulla croce.

   Alcuni erano seguiti dalla banda che in quell’abbondanza di richieste si divideva in gruppi per accontentarli tutti. Ma quando era la donna ad essere scalza (ma vestita) e con i capelli lunghi sciolti lungo la schiena, si raggiungeva il culmine della compassione. Con le spalle diritte, la grande ndorcia, abbellita da fiori coloratissimi in carta crespata, in mano, il passo  deciso e lo sguardo davanti a sé come perso in pensieri suoi, lei procedeva solenne tra due ali di scrutatori impietositi (ma ahimè sempre scrutatori), anche se portare a ndorcia vuol dire che la grazia è stata ottenuta.

  Se poi la donna aveva per mano un bambino, o uno per mano e uno in braccio, scappavano le lacrime a tutti e tutti si chiedevano: “puvireddra, cu sap ch grazia c fic  S. Gius’puzzu! 

  La sera, la confraternita, per concludere la festa  istituisce  una lotteria mettendo in palio un mulo.   Tutti compravano a puwl’sa, finanche gli impiegati che di un mulo non sapevano che farsene (ma visto il prezzo…), e quel sorteggio finale chiudeva, economicamente in bellezza per la parrocchia, i festeggiamenti. 

  Una delle promesse più belle e impegnative è quella della “tavola”. Altari a gradini nella stanza più grande della casa o nella parete più ampia del pianterreno coperte da lenzuola bianchissime, riempite di pani con forme “artistiche” e bizzarre, arance, verdure cotte e crude, dolci e  alcune specialità esclusive del Santo. Segue un rito che coinvolge tutti i presenti e ogni visitatore è invitato ad assaggiare: molti quel giorno non cucinano nemmeno sapendo che assaggia qua e assaggia là ci esce abbondantemente il pranzo e la cena mentre per chi l’allestisce  spesso la giornata si chiude con un vero digiuno per paura che possa mancare cibo per i visitatori. Giornate intere di inarrestabile lavoro compensato solo dalla soddisfazione del  risultato e, manco a dirlo, anche da una particolare protezione di  S. Giuseppe.

   Oggi non più, ma ai tempi di Joe, 1950, la statua del Santo dimorava nella chiesa Madre , dono della famiglia Prato. Nella sua chiesa in costruzione il Santo, per cominciare, era rappresentato da un dipinto. Spinto da alcuni benefattori tutt’altro che miserabili, Padre Longo  fece costruire la “bara” per portarlo in processione. Ma non avendo pronto lo spazio, anche quella veniva ospitata dalla Chiesa Madre. In cambio del favore quest’ultima la usava per il suo patrono e tutti i sacrosanti anni i sangiuseppini dovevano andare a prendere bara e Santo per farlo partire dalla “loro” chiesa.

  La Matrice che, ricordiamo, prestava la statua, esigeva che finita la festa il tutto venisse restituito, cosa che mandava in bestia i parrocchiani di S. Giuseppe, finché la situazione non fece comprendere ai due parroci che, entrati ormai nel tunnel della competizione, si doveva porre fine allo scambio di favori mettendo in pratica l’unica soluzione possibile e cioè quella di farsi costruire l’uno la bara e l’altro la statua. Nel cuore di mezzo paese (l’altro mezzo, con altro per la testa,  non ne sapeva niente), come in un finale da favola, tornò pace e serenità. 

 

                                                                          

 

                                                                  

 

 

 

 

 

 

II

 

 

 

    Joe nasce nel 1932, al decimo parto. Prima di lui sono arrivati cinque femmine tutte vive e quattro maschi tutti morti. Nonostante il nome propizio, Salvatore, dato ai neonati, essi morivano dopo pochi mesi o dopo i primi anni. Poiché il padre di Joe, come tutti i padri di allora, se avesse potuto, avrebbe dato volentieri due femmine in cambio di un maschio che lo avrebbe aiutato nei campi, mentre le femmine dovevano essere mantenute e per giunta necessitavano della dote per sposarsi, alla nascita del bambino volle sfidare la sorte  e andare sul sicuro. Lui si chiamava Giuseppe, sua moglie si chiamava Giuseppa, il Santo con quel nome era a portata di mano per ogni emergenza, e dunque perché tradirlo? Chiamò il nascituro Giuseppe e ci azzeccò in pieno perché  il bimbo (guarda caso) visse, e vive tutt’ora, sano e gagliardo: a binirica.

 

    A dieci anni perde il padre a causa di una polmonite, mentre lui è ancora alle prese con la terza elementare per volontà estranea alla sua. Il ragazzo infatti dopo aver imparato a mettere la firma e a leggere i titoli del cinema Rocchetti avrebbe decisamente chiuso con la scuola trovando quasi futile continuare. Al ritmo di un paio di volte al mese si alzava intenzionato a manifestare indirettamente la volontà di smettere, dirigendosi, insieme ad altri compagni insofferenti, dalle parti della S. Croce  anziché al palazzo scolastico: due volte su tre veniva intercettato, attraverso le finestre della classe, dal maestro Placido Berritta  il quale mandava una spedizione, capeggiata da un certo Crocetta, con il compito di recuperarli.

  I fuggiaschi li intercettavano a loro volta e li aspettavano dietro a supala, per cominciare una sassaiola come prima accoglienza e una battaglia a colpi di zammara per concludere.

  Il giorno dopo, dice Joe, la baldanza si trasformava in tremore sapendo cosa lo aspettava:  “Pappalardo Giuseppe, vieni qua e inginocchiati”: partivano le bacchettate sulla schiena e la differenza tra il giorno prima da leone e il giorno dopo da castigato erano, prosegue Joe, u chiant e u brugghj nonché l’umiliazione davanti al Crocetta & C.

 

  Padre Longo propone alla madre di Joe di mandarlo in seminario, farlo studiare e prima dei voti ritirarlo, ma la donna si rifiuta per non privarsi dell’unico maschio della famiglia.

  Mancando l’autorità del padre finiva l’obbligo scolastico e cominciava quello del lavoro.

Viene preso come carusu da proprietari terrieri, benvoluto, dice Joe, ma poco considerato e ancora meno pagato. Il suo domani è quanto mai stretto di prospettive.

  La madre e le sorelle sono sarte da uomo e lavorano i pantaloni che i sarti Giarrizzo e La Delfa

mandano a ritmo regolare, permettendo alla famiglia di vivere senza troppe  ristrettezze..

    La sua prima giovinezza dunque  trascorre simile a quella dei suoi coetanei: l’inquietudine dell’adolescenza  lo porta a vivere quelle “sensazioni forti” (per modo di dire) che sono la passeggiata sotto il balcone della ragazza vista a messa (a S. Giuseppe ovviamente) e le scorribande notturne nelle campagne a caccia del coniglio da arrostire sotto la luna, nei pressi del palazzo scolastico nuovo, con Totò Sberna & Company.

  Serate di Giugno a “visitare” gli altari del Corpus Domini che offrivano fior di ragazze affacciate ai balconi da poter guardare liberamente e pustiari per cogliere un’occhiata, finta distratta, che sfiorava di striscio ma  era sufficiente per accendere speranze e desideri. Quell’attimo in cui si incrociavano gli occhi si fissava nel cervello e respingeva il sonno, per ritornare insistente ad essere  assaporato, vagando per canale e castello, fino alle ore piccole.

  Poche, o niente, ore di sonno, e via in campagna per la mietitura: due/tre km a piedi per arrivare prima del sole che in poche ore diventava raggiato da arrostire la pelle e far perdere i sentimenti.

  E d’inverno nella sala biliardo con gli amici o al cinema fino alle fantastiche serate di carnevale in casa di amici e parenti a ballare e mangiare a mezzanotte, scambiare le pietanze, ridere, scherzare  senza superare la buona creanza e dopo  riprendere a ballare inebriati e sinceri.  Che ricordi! dice Joe. E racconta.

   Quella sera la festa da ballo è in casa del fidanzato di sua cugina Marietta. La ragazza è bella ma av u cori muwrt perché il futuro sposo, tanto gradito dalla famiglia, non è di suo gusto e lui l’ha capito.

   Finita la festa tutti a casa. Ha piovuto e fa freddo. Le strade sono umide e fangose.

Joe nota qualcosa di strano: sulla strada due individui reggono, trasversalmente, una pertica d’aratro come a voler creare un ostacolo a coloro che devono andare in quella direzione. Escono i fidanzati: lui tiene la ragazza per un braccio, nel frattempo un uomo le si affianca, l’afferra per l’altro braccio e i due uomini la trascinano verso un “leoncino” con il motore acceso. Marietta si mette a urlare.  Joe capisce, fa un balzo sulla pertica, li insegue, viene fermato da un uomo con una pistola in mano ma lui, eroicamente,  non lo prende neanche in considerazione e prosegue fino a raggiungere i due che spingono la giovane dentro il veicolo.

   L’autista lo riconosce e dall’atteggiamento terrorizzato della ragazza capisce che non si tratta della consueta fuga come gli era stato detto, ma di un vero e proprio rapimento. Per qualche minuto non si capisce più niente: chi grida, chi corre, chi capisce e chi cerca di capire. Joe e i suoi avversari  si azzuffano e finiscono nella fanghiglia. Poi la ragazza viene abbandonata e gli aggressori se la danno a gambe. Joe  non trova più l’orologio, e il suo cappotto, oltre che sporco è pure strappato: si l’ava ngignat a stissa sira

  Ma, tutto è bene quel che finisce bene, il tentativo di rapimento invece che interrompere il fidanzamento accelera il matrimonio e qualche mese dopo la ragazza si lascia convincere che “u carus è saggi, s’a passa bona e va fai a s’gnura”.  Joe viene rimborsato del cappotto e dell’orologio, e la storia finisce a biscotti,  rosolio e confetti come tutti (meno la sposa) avevano sperato.

  E poi i fatti di cronaca nera che più nera non si può: il figlio che uccide il padre, l’operaio che tenta il colpo rubando la paga dei compagni che viene  riacciuffato sui tetti col bottino, i misteri del nucleo investigativo fascista che fa piazza pulita di delinquenti e mafiosi (poveri, perché i ricchi che ricchi sarebbero stati se avessero potuto essere arrestati come i poveri?), usando maniere forti da lasciarne qualcuno secco. Si fanno  nomi e cognomi, si ammanettano e si fanno passare dalla piazza per farli vedere a tutti. Infine, viene assassinato, non si è mai saputo da chi, anche  lo spione che aveva fornito tutti i nominativi dei “fuorilegge”.

  Nel dopoguerra, dice sempre Joe, bastava dormire con la bocca aperta perché ti portassero via i denti. Le leggi fasciste costringevano i contadini a un serrato controllo e a portare il raccolto nel consorzio. Per sottrarsi si andava di notte al mulino di Urtascura ma si incontravano i banditi al passo che facevano man bassa del raccolto e spesso anche di muli e asini. Allora si riunivano quattro-cinque uomini armati e il rischio incursione diventava meno probabile.

  La mamma di Joe per macinare il grano si “serviva” di uno che aveva un “mulino” rudimentale  fatto a mano con una pietra scavata e un’altra dentro che si faceva girare con una manovella. Con la farina più fine si faceva la pasta, con la più grossolana la polenta, basta chi nni inchìvam a panza.

Chista è a liggi di Mussulin; ogni casa av un mulin”

 

  Ma in paese accadevano anche i miracoli. A poca distanza uno dall’altro due quadri della madonna avevano fatto intravedere delle gocce d’acqua dietro il vetro e tutti avevano creduto che la vergine piangeva per colpa nostra e dei nostri peccati. Il sacerdote faceva la processione seguito dai fedeli che  invece del pane compravano il lumino da portare in quella casa povera al pianterreno che per l’occasione faceva la conoscenza per la prima volta con una pulizia radicale affinché  i pellegrini, che accorrevano da ogni parte del paese, non si distraessero dalla madonna per osservare la sporcizia abituale.

“A madonna ch chianc si! A chiddr no mentr c  fìc’n mìnt’r a luc  rialàta e s livàu u lum…” ghignava il miscredente e girando la faccia altrove concludeva “eh poveri cretini…”

  La speranza di una vita migliore per intercessione della madonna che per piangere aveva scelto la loro umilissima casa, svanì quando si scoprì che la causa era stata l’umidità dei muri.

 

    Joe è maggiorenne: ha ventuno anni. Ha già fatto qualche vittima; ha lasciato ‘a  zita a mucciun perché un fratello di lei, saputo della tresca, aveva riempito di lividi la ragazza e Joe quella sera, ai piedi di un ulivo, mentre l’amico faceva da palo e lui stringeva la ragazza tra le braccia, sente che quei lividi sono “sarvati” anche per lui. Il fischio d’allarme dell’amico lo conferma e lui se la dà a gambe dicendo alla ragazza “trovati un altro”, chiudendo in quel modo inglorioso la sua prima storia d’amore.

   Finalmente può fare domanda dai carabinieri, nella polizia e, già che c’è, la fa anche nei pompieri. La sorella, dal Canada (si vede che era già nell’aria, almeno in quel paese) per una questione di parità dice al marito, che vuole fare l’atto di richiamo al proprio fratello, di volerlo fare anche a Joe “o tutti e due o nessuno” . Joe perciò riceve compiaciuto anche quella possibilità: ora deve solo aspettare che il suo destino si compia. Prima o poi qualcosa si deve muovere. Il guaio è che quando si muove si muove tutto in una volta. Dopo due anni arriva la chiamata dal Canada e  arriva anche quella della polizia. Joe non ci pensa due volte: sceglie il Canada.

  Il sindaco Camerini, socialcomunista sfegatato, suo malgrado lo incoraggia “sei fortunato a non avere la tessera dei compagni, perché altrimenti tu in Canada non  potresti andare” (i tempi erano quelli dei ferri corti tra U.S.A.e U.R.S.S.).

  Essere considerato fortunato da un sindaco avrà pure il suo peso!

                                                                    

 

 

 

III

 

 

 

    12 Dicembre 1956, giorno della partenza. La sera prima l’ha passata a ballare dalla (nuova) fidanzata: Joe è un bel ragazzone e non ha tanti complessi con le donne.

  La notte è stata bianca. Pensieri, progetti, paure e sogni accavallati l’uno sull’altro lo hanno agitato.

  Ma tra qualche mese comincerà a mandare i soldi a sua madre e alle sorelle, e un giorno tornerà al suo amato paese e incontrerà gli amici e lui sarà servito e riverito come tutti i forestieri. Sarà vestito bene avrà la macchina, sceglierà una ragazza anzi no, porterà la moglie americana e tutti la guarderanno e tutti diranno anche per lui “chiddru a  Merica  divintau riccu”…

  Sua madre lo chiama, tutto è pronto. Arrivano i parenti e gli amici che non gli permettono di prendere le valige, si incamminano per la stazione e sul treno per Dittaino salgono i parenti stretti e gli amici intimi. Le sorelle piangono ma la madre no “vai a cercare la tua fortuna” aveva detto. Io, se i miei me lo avessero permesso, sarei andata in America con uno che mi voleva sposare e ora sono pentita: tu non devi fare la mia fine.”

Quando a Dittaino Joe sale da solo sul treno per Palermo, sente i singulti che non riesce a trattenere e comincia a piangere  con dolore: “perché” gli chiede un passeggero e dopo averlo saputo gli risponde : “beato te che te ne vai. Devi essere contento”

 

  A Palermo alloggia in un hôtel gestito da carrapipani, la famiglia Papa.

La nave “Roma” che doveva effettuare il suo ultimo viaggio sull’Atlantico, anticipa l’addio alle traversate perché è fatiscente. La sostituisce, all’ultimo momento, una nave della flotta Onassis, bella e moderna.

  Il prezzo è però diverso: cinquantamila lire in più.

  Il viaggio non dà afflizione a Joe perché la nave oltre a essere veloce offriva ogni comfort. C’era da mangiare, da lavarsi, e la sera c’era musica da ballo, teatro, giochi vari e, dice Joe ,c’erano anche i fiori.

  Non ci dilunghiamo sull’effetto che quel viaggio deve aver fatto su Joe, limitandoci a immaginarlo.

   Otto giorni dopo, si arriva ad Halifax, nella Nova Scozia. Lo sbarco è ciò che rimarrà inciso nella mente di Joe come uno dei momenti più difficili e incancellabili della sua vita. Il tempo era come lui non lo aveva mai visto e come mai avrebbe potuto credere di vedere: una bufera di vento e neve con la temperatura a  45° sotto zero con il pontile che ondeggiava pericolosamente e i passeggeri, investiti dalla tormenta, per sbarcare dovevano essere sorretti uno a uno dall’equipaggio. Joe  sentì il malessere della disperazione, quella che fa stringere il cuore piccolo piccolo. Si guardò intorno ma non vedeva che neve turbinante, vento, ghiaccio, cielo e mare senza orizzonte in un’unica massa uniforme di grigiore opprimente:  M s’ccau u cor!  E cuwm am putut vèn’ri na sta terra!!”

  L’equipaggio li incoraggia “state tranquilli, sul treno che prenderete starete al caldo. Mangerete perché c’è il ristorante…è un treno speciale per gli emigranti”

 Il treno era davvero “speciale” dice ora Joe con ironia, tutto di legno, lento, senza possibilità di mangiare, completamente sprovvisto di riscaldamento e con finestrini piccoli e coperti di ghiaccio anche dall’interno.

   L’altra sorpresa per Joe era dietro l’angolo. Non avevano comprato niente da mangiare  per quella speranza di trovare  il ristorante sul treno. Gli ritornano in mente le parole di incoraggiamento dell’equipaggio e il pensiero di quella beffa gli fa salire la rabbia che diventa amarezza. Se li avesse davanti sarebbe pronto a fare a pugni.

  Pensa di fare rifornimento alla prima fermata: pane e sardine. Le sardine vabbè sono sardine,  ma il pane, che lui aveva scelto già affettato per comodità, appena in bocca simile alla colla si attacca o palatar  tanto da doverlo togliere con le dita. Il pane era da tostare ma Joe non lo poteva sapere.   Ormai qualche ora e siamo a casa, pensa con sollievo: ne trascorreranno ventiquattro. Ventiquattro ore di fame, freddo e tristezza senza fine. Ventiquattro ore d’inferno, dice  Joe,  e  aggiunge: “quando ci penso mi rizzano le carni”

  La notte dovettero tirare una tavola di qua e una di là per stendersi e grazie a sua madre che aveva messo in valigia due coperte , poterono superare la notte dormendo in gruppo (dandosi le spalle si presume) anche con donne giovani che andavano a raggiungere i mariti.

 I ferrovieri parlavano inglese e Joe,  più che sillabe, sentiva uscire dalle loro labbra solo del rumore.

  L’unica nota di umanità era un uomo che strimpellava la chitarra.

Il treno va sui binari e Joe  gratta il ghiaccio dai minuscoli finestrini per vedere il paesaggio che appare una desolazione totale: pianura bianca di gelo, qualche baracca e di tanto in tanto una mucca; così fino all’arrivo a Montreal dove finalmente si vedono le abitazioni. Altro treno ( ma almeno imbottito e riscaldato) e ancora cinque – sei ore di viaggio per Ottawa.

   Quando scende alla stazione è stremato, pallido, stordito dall’indicibile sacrificio di quel viaggio, dalla stanchezza, dal freddo reso ancora più insopportabile dalla pancia vuota, nonchè dalla consapevolezza di “ aver scoperto di non aver scoperto l’America”; piuttosto di averla lasciata. Si sente debole, desidera andare a casa il più presto per trovare  ristoro e  chiarire bene in che mondo era finito.

  Sua sorella con il marito e i figli lo aspettano sul marciapiede. Joe in quel viaggio ha vissuto un tempo lunghissimo che lo ha trasformato più di quanto non fosse accaduto nei vent’anni di vita in paese. I suoi occhi sono sgranati su una realtà che stenta a comprendere, tanta è la differenza da ciò che aveva immaginato. Il disinganno è fuori misura, molto più di quanto ne avrebbe messo in conto se ne avesse valutato la possibilità: “No, io qua non ci resto. Non ci resto”. 

  La sorella lo abbraccia e insieme scoppiano a piangere. “ Avanti, ora amunninn intra” taglia corto il cognato e li porta alla fermata del tram. Lungo il percorso chiede alla sorella:

“Perché  le case hanno il tetto a punta? Mi sembrano le cappelle dei cimiteri!

“Per la neve. Per farla scivolare”

“Okei”

“ E che parli già inglese?”

 

   Joe guarda la gente e davvero sente di essere in un’altro mondo. Uomini e donne imbacuccati con gli scarponi ai piedi “come i galli cauzz’nut” dice ora, e la mente va dritta alle donne di Valguarnera, serie, dignitose, con i tacchi alti e le calze con la riga che partiva dal tallone e scompariva nei meandri delle gambe e dell’immaginazione maschile…. I cappottini smunti a redincote; gonne strette fino al polpaccio con lo spacco di pochi centimetri, camicette aderenti sopra i seni turgidi e protesi che, specialmente d’estate, facevano friggere il sangue fino alla smania…

 ”No, io qua non ci resto. Non ci resto”

  E invece sa che deve restarci almeno il tempo di guadagnare i soldi per riscattare il pezzo di terreno di Castani che ha dato in pegno per pagarsi il viaggio.

 

 

   Due giorni e arriva il Natale. Come cancellare il ricordo delle romantiche  novene a cui Joe partecipava assiduamente e come non sentire lo struggimento per l’aurora che sorgeva mentre lui, dietro alla colonna, faceva s’gnal alla signorina che timida si dava un contegno aggiustandosi il fazzolettino in testa con mani sapienti e gesti rituali…e alla fine della messa, appostato fuori, per essere nei pressi del passaggio quando tutti uscivano. Come non sentire l’abisso della differenza tra i suoi Natale a Valguarnera e quello che sta vivendo adesso! “No, io qua non ci resto. Non ci resto”. Solo fantasticare su quel’alternativa gli dà sollievo.

  Joe assapora il benessere del riposo dopo dieci giorni di interminabile movimento, fragore di motori, freni stridenti e porte sbattute. Il silenzio era insieme al caldo ciò di cui sentiva urgente bisogno. Riprende forza e colorito ma le idee non riesce a riordinarle. E come potrebbe, se non sa cosa c’è a un palmo dal suo naso! Non sa nulla del nuovo mondo, sa solo che non è migliore del suo paese, come aveva creduto; non lo è neanche un po’anzi, non lo è per niente. Aveva lasciato la luce del sole per quella dell’oro: lui intorno a sé per intanto  non vedeva traccia né dell’uno né dell’altro.

 

 

   Passano le feste e giunge l’altro ospite: Filippo, il fratello di suo cognato.

Alle sei di mattina, ancora con il buio, i tre uomini vanno a cercare lavoro.

In tasca di Joe sono rimaste cinquantamila lire scambiate in dollari che si assottigliano a vista d’occhio, sebbene la vita non fosse molto “expensive”.

“Ora per le sigarette devi comprarti le cartine e il tabacco, così risparmi, come faccio io” – gli suggerisce il cognato.

“ Io non ho mai comprato tabacco e cartine neanche quando ero in paese. Sono venuto qua per passarmela bene non per comprare cartine e tabacco”- ribatte secco Joe.

Sul tram, Joe si mette in piedi sull’estremità per osservare l’esterno. Il riflesso della luce interna gli rimanda la sua immagine ed egli si guarda aggrottando la fronte: la sorella gli ha dato cappello, sciarpa e maglioni del marito, lo ha fatto ntrusciar come una mummia e ora gli sembra di guardare un altro: non si riconosce.

  Davanti la porta della ditta, gestita da un italiano, c’è un folto gruppo di disperati che chiede lavoro e a loro, arrivati dopo, rispondono di tornare un altro giorno.

  Sono le otto e mezza, la giornata è limpida e un pulviscolo di particelle d’umidità catturate dal gelo scintilla nell’aria in una affascinante pioggia argentata: Joe osserva lo spettacolo incantato.

  Suo cognato, per risparmiare, decide di andare a piedi: camminando per una strada in leggera discesa, Joe ruzzola a terra per via del gelo mentre le scarpe di Filippo, che hanno i “taci” sotto le suole, fanno un curioso rumore “Filippo, gli dice Joe, per favore non metterti più queste scarpe… che può dire la gente che ci vede?” Nel guardarlo si ferma di colpo: “Cos’hai in faccia?” chiede sapendo  la risposta. L’uomo si tocca baffi e sopracciglia bianchi di ghiaccio e qualche pelo resta tra le dita come fosse solo appoggiato sulla pelle. “E cuwm nni iu a finìr cca… Ch sim o Polo Nord?” E sente di avere anch’egli le sopracciglia ghiacciate.

  Joe sta fumando. Un ragazzo gli si avvicina e con i gesti gli chiede di dargli il mozzicone che rimane: “Ma allora anche qua c’è la miseria! Mi sembra come in paese che si fumava in cinque o sei la stessa sigaretta!”  E questa fu la prima uscita in Canada di Joe.

   La ricerca di un lavoro si trascina per giorni: i dollari finiscono e Joe, suo malgrado, intuisce  che il cognato aveva visto giusto: è arrivata l’ora, anche per lui, di comprare cartine e tabacco per cominciare l’umile rituale di arrotolare sigarette.

“Perché piangi? Pensi alla mamma?” chiedeva la sorella a Joe che spesso soffiava forte dal naso. Ma Joe, che si vergognava, allora, come oggi nel raccontarlo, non rispondeva.

                                                               

                                                                    

 

 

IV

 

 

 

 

   (Ottawa è attraversata dal fiume omonimo e ai tempi di Joe, contava 240.000 abitanti.

Città fondata da Jonh By nel 1826, aveva conosciuto i primi insediamenti a cominciare dal 1800.

 L’espansione si intensificò con l’arrivo dei britannici fedeli alla corona (lealisti) durante e dopo la guerra d’indipendenza americana. Nel 1858, con appena 10.000 abitanti, la regina Vittoria la scelse come capitale federale per la sua posizione centrale rispetto alle città più importanti come Toronto, Montreal e Quebec.

  I quartieri, prevalentemente residenziali, si dividevano tra franco canadesi (un terzo), e inglesi discendenti dagli abitanti originari (due terzi).

Ben presto divenne una città dalle sembianze  architettoniche inglesi, con uno sviluppo rapido e di qualità.

  Negli anni settanta contava già 300.000 abitanti con oltre 600.000 nell’agglomerato urbano.     Centro  politico-commerciale, due università (nel ’42 e nel ’48), musei, teatri, gallerie d’arte, un aeroporto internazionale, la capitale canadese oggi è un’importante nodo ferroviario, stradale e fluviale.

  Ha industrie tessili, chimiche, cartarie, di stamperia e primeggia nei prodotti da legno.

 Oggi (2004) , che Joe ha settant’anni e più, Ottawa ha un aspetto suggestivo con ampie strade rettilinee che si  diramano dal centro, ed è la moderna capitale di uno stato fiorente: i suoi abitanti hanno superato il milione di unità).

 

   

 

     Cercando lavoro e soffrendo per l’implacabile freddo, Joe trascorse tutto gennaio non privo di dissapori con il cognato che tendeva a riprenderlo ad ogni piè sospinto: se arrivava tardi, se spendeva, se chiedeva la camicia ecc. Per lui, che dopo la morte del padre non aveva tenuto alcuna briglia, era  intollerabile accettarla a ventidue anni! Oggi, dice Joe, forse aveva ragione: sua sorella si era trovata con due persone in più in casa, oltre ai quattro che erano già di loro, e certo non era da sottovalutare la fatica che il marito notava più di quanto lo notassero gli ospiti. Per giunta era l’unica donna in casa senza aiuto di nessun genere.

  A febbraio, finalmente, trova un’occupazione da manovale nelle costruzioni.

Joe vuole recuperare il tempo perso e si butta a capofitto nel lavoro, dove scopre con sorpresa che andare oltre  l’orario, significa molti soldi in più nella paga settimanale. Decide di mettersi a disposizione della ditta e in pochi mesi le finanze decollano come  non succederà mai più in futuro: trentacinque dollari la settimana contro i normali venti/venticinque.“Però, dice, non c’era né notte, né giorno: ero venduto”

  Prima di qualsiasi cosa  si cercò un’abitazione da dividere con un friulano e almeno per il momento  l’idea di tornare in paese fu accantonata: per ora guadagnava bene, il freddo era sceso da 45° a 25°, la sera cominciava a uscire, prima con il nipote di diciotto anni, dopo da solo, alla scoperta dei locali notturni, frequentato prevalentemente  da francesi ma anche da inglesi e comunque  di tutto un po’, e fa la conoscenza con un altro genere di donna, quella che lavora di giorno e la sera va a divertirsi come e non diversamente dagli uomini.

  Lui si presentava in scuro e faceva “centro” con le ragazze che prima ballavano e si stringevano a lui, ricorda Joe, e dopo ballavano e si stringevano con gli altri. Succedeva anche l’inverso e quando la ragazza si stringeva prima a un altro e dopo a lui, scoppiavano scene di gelosia con alterchi che finivano a cazzotti: la gelosia era il pretesto per manifestare  il rifiuto verso i  nuovi “coloni” italiani ed europei che stavano invadendo il continente canadese. Così Joe si rende conto che:  “Una moglie di qua? E che ci devo tirare il collo come alle galline? No, no, mai o munn!”

 

 “Cara mamma, io sto bene e così spero di te, lavoro e guadagno…”  scriveva Joe

   Ci teneva a informarla di avercela fatta ma, senza volerlo, la lettera finiva sempre con il tono malinconico della sconsolata solitudine: lui, il cocco di famiglia, che non aveva mai lavato e stirato una camicia, mai lucidato le scarpe, mai spostato una sedia…per non parlare del sogno che quasi tutte le notti lo riportava in paese, alla campagna assolata, alle strade formicolanti di gente conosciuta, familiare nei gesti, nelle parole e nei rituali. Un tormento che si aggiungeva al tormento.

  Quanto pianto in quel confronto! E quanto pianto nella lacerante percezione  di una giovinezza consumata in pochi mesi, strappata dalle sue carni (testuali parole) come se gli venisse scorticata la pelle. Il distacco dalla sua giovinezza, vissuto senza gradazioni, gli fanno sentire, ancora oggi, il pungolìo della pelle d’oca. La giovinezza, la sua esuberante giovinezza di ragazzo di belle speranze, finita di colpo. Finita per sempre!

 

  La mamma capisce sempre, intuisce  anche le parole che un figlio non dice,  ma che per lei, solo per lei, tralucono limpide: “mio figlio sta soffrendo, mio figlio ha bisogno, mio figlio deve essere aiutato”.

 

  Joe ha trascorso il primo anno in Canada. La lingua dopo pochi mesi era stata superata senza grandi difficoltà ed era in grado di farsi capire e capire sufficientemente.

Un giorno riceve una lettera senza mittente  con una calligrafia sconosciuta. E’ una lettera che gli suggerisce di chiedere la mano di sua nipote Rosa.

Joe è allibito: Rosa? La figlia di sua sorella? Sono diventati matti? Lui mai aveva pensato una cosa simile! Rosa era la nipotina tra le tante con la quale aveva diviso sì e no, qualche gioco, prima di essere assorbito dall’adolescenza e da altre “promesse”. Semmai aveva pensato alla ragazza che aveva lasciato, solo che quando lo aveva accennato ai suoi, era stato dissuaso: “nan pò esser, nan’è cosa p tia” avevano risposto. Lui, malgrado non ne avesse  inteso il motivo,  non aveva insistito.

  Ora  il contenuto della lettera, pur sembrandogli inattendibile come uno scherzo, ebbe la forza di penetrare nella testa e martellare incessantemente: giorno e notte.

  Anche se considerava la proposta avventata, non poteva trascurare il fatto che  l’autore della lettera forse ne aveva parlato con i genitori di Rosa, o magari con la stessa ragazza e chissà, poteva aver  sentito il terreno morbido…in questo caso…pensandoci bene…perché no.

 Ne parla con la sorella di Ottawa e quella dissente senza riserve “una nipote? Ma non dirlo neanche per scherzo”.

  L’unica alla quale può rivolgersi è la mamma. Comincia da allora una fitta corrispondenza con lei che di  primo acchito la trova irrealizzabile, ma piano piano…pensandoci bene…perché no.

 Qualche mese dopo Joe decide di giocare la carta, chi non risica non rosica si dice, almeno vediamo gli effetti e di conseguenza o dentro, o fuori: prende carta e penna e scrive al cognato (papà di Rosa) indirizzando la lettera fermo posta.

 La risposta però si farà attendere, facendogli allungare il collo per un bel po’.

 

 

 

 

 

V

 

ROSA

 

 

“Da giorni mio padre era di pessimo umore e mia madre piangeva senza motivo. Se facevo qualche domanda mia madre rispondeva “m fa mal a testa” e mio padre  nan sun affar ch ti riguàrdan”. Invece mi avrebbero riguardato, eccome!

  Avevo poco più di diciassette anni ed ero nella fase in cui una figlia deve ricevere solo prediche  “se vengo a sapere che muschiati con qualcuno  vi ammazzo, vi caccio da casa, vi rinnego ”… ma  se chiedevo risposte sincere dovevo ancora crescere   

In casa venivano più spesso del solito le sorelle di mia madre e parlottavano  con i  miei. Io venivo scansata  come se soffrissi di una malattia contagiosa.

  Dopo qualche mese si venne a sapere di una lettera arrivata dal Canada spedita da mio zio Giuseppe (Joe) fratello di mia madre.

  Poi si seppe che in quella lettera zio Giuseppe manifestava l’intenzione di prendere moglie e voleva una del paese. Dopo altri giorni ancora, si scoprì che la lettera riguardava me (se avessero scoperto il Santo Graal, avrebbero avuto sicuramente meno circospezione nei miei confronti).

Infine, dulcis in fundo, si dichiarò apertamente che la prescelta ero stata (nientedimeno!) io.

 

  Al giorno d’oggi avrei risposto “ Io!!!?? Diventare la moglie di mio zio? Ma non esiste proprio!” e invece, arrossendo di disagio, dissi solo: “Io? E che c’entro io?”

  Così il tormentoso dubbio che affliggeva i giorni e le notti dei miei genitori ora si era insinuato anche nella mia testa trascinando anche me nella loro inquietudine.

  La mia realtà fatta di pensieri e sogni a lungo termine, e perciò poco coinvolgenti, stava subendo una deviazione spaventosa. A volte rivivevo certi momenti in cui, da piccola, mi addormentavo tra le braccia di mia madre e mi svegliavo nel letto di mia nonna. L’attimo in cui dovevo mettere a fuoco il luogo, credevo di aver cambiato mondo e mi prendeva la paura di dover rivestire un altro ruolo  non avendo idea di quale. Poi decidevo di piangere  e quando sentivo la voce di mia nonna, tutto tornava al proprio posto e  mi acquietavo.

  Dunque mio zio dal Canada mi chiedeva in moglie. Tanto la cosa  si mostrava assurda che lì per lì credetti che i miei non avessero saputo leggere quella lettera; ma quando cominciai a collegare gli ultimi movimenti in casa, il quadro mi apparve completo.

  Non posso affermare che la novità mi rendeva felice ma non posso affermare nemmeno il contrario. Posso affermare, questo sì, che mi sentivo come  na babba.

  In verità ciò che mi procurava ansia era  il probabile cambiamento. Sapevo che il mio destino era in mano ai miei genitori e di loro mi fidavo. Loro sapevano meglio di me se “questo matrimonio s’ha da fare”  o no. 

  Mia madre di ca s pungiva e d ca s faciva mal: se io ero la figlia, l’altro era suo fratello. Non voleva ferirlo rifiutando, ma non avrebbe voluto nemmeno sua figlia infelice. E poi c’era lo scoglio più faticoso da soverchiare: i pregiudizi. Che cosa dirà la gente, i parenti, gli amici, i vicini, di un fidanzamento tanto poco ortodosso? E’ vero che in paese ce n’erano diversi di questi casi, ma è vero che quando tocca agli altri la musica ha un altro suono. E’ quando tocca a noi che sentiamo le stonature e i “fuori tempo”. Senza lo stretto legame di sangue la cosa sarebbe stata, fuori di dubbio, fattibile e, perché no, bene accolta.

  In famiglia perciò, regnava l’incertezza più assoluta. Nessuno sapeva che pesci pigliare, nessuno osava decidere e in questo clima passavano i giorni e le settimane, finché una sera non giunse mia nonna con aria decisa e con una foto (che ci aveva mostrato qualche settimana prima) del figlio, in cui appariva a mezzo busto e con un’aria seria nonostante il sorriso finto da fotografia impegnata, in completo scuro, camicia e cravatta, il volto scavato rispetto alla partenza e decisamente niente male. Anzi un bel tipo.

“E che ci avete da dire a questo figlio, forse che non è un figgh com u specchj!  E che fa ve lo siete scordato quanto era lavoratore , tu (rivolta a mio padre) che gli hai fatto da padre, dopo la morte du bonarmuzza, che fa non è degno di stare a spalla di mia nipote, e che è meglio se se la sposa un facchino qualunque che magari la disprezza e la malatratta? Con mio figlio almeno sai in che mani va a finire. Non ci levate la fortuna, Giuseppe lavora, guadagna e siamo tutti d’accordo ch s pigghia a ma n’puti. Accussì u carus s r’zzetta e nan stranìa…”

  Mio padre, dopo che se ne fu andata, mi chiamò: “dobbiamo prendere una decisione, o di si o di no, devi dirlo tu”. Era chiaro che se non fossero stati favorevoli, non mi avrebbero neanche messa al corrente.  Mio padre però era particolarmente compiacente, perché  da tempo desiderava emigrare in qualsiasi stato o continente e questa era l’opportunità che aspettava.

  Non so quanto la requisitoria di mia nonna influì su di me, fatto sta che risposi si, salvando il bel rapporto di famiglia, scansando dissapori facilmente prevedibili e regalando a mio padre la risposta ambita e sperata.

 

   Ora pensavo sempre a mio zio, pardon al mio fidanzato e ricordavo quando da piccola mi portava, con altri nipoti, a comprare la càlia e i lupini per S. Cristofero; ricordavo quando mio padre lo sgridava per qualche disubbidienza e mia madre lo difendeva. Lo difendevano tutte le sorelle e soprattutto mia nonna. Era il figlio maschio, il più piccolo e il più coccolato della famiglia.  Ricordavo quando, solo l’anno prima non mi considerava nemmeno, preso com’era da qualche cagnola da sicutare, come diceva mia nonna, e mi chiedevo come mai un simile cambiamento nei miei confronti.

  Ero rimasta sorpresa anche perché si diceva che avesse lasciato il cuore ad una ragazza… perché non aveva scelto lei? Cosa l’aveva indotto a voler sposare la figlia di sua sorella? Oddio, come età c’eravamo perfettamente, aveva solo sei anni più di me, ma con tutte le ragazze che avrebbero dato l’anima per un marito e per di più in America (Canada e America erano la stessa cosa: l’ignoranza verso la geografia colpiva i pochi andati a scuola, figuriamoci i molti che non c’erano andati!), proprio me doveva scegliere?

 Che vi fosse stato uno solo (dico adesso), tra tutti, preoccupato di sondare se nella mia testa potesse esserci qualcuno di mia scelta! Macché!

 

   Ed ecco il fidanzamento e il suggello alla promessa con l’acquisto dei gioielli, seguiti dal guardaroba da signora, con relativo via vai dalla sarta, accompagnata da mia nonna nel duplice ruolo di nonna e suocera che mi faceva sentire la nipote preferita: l’eletta!  Dato che i dollari erano già arrivati a lei, questi “pegni” furono resi operativi con una tempestività esagerata. Io balzo agli onori della cronaca tra tutto il parentado e comincio a beneficiare del riguardo tipico delle fidanzate: niente maxi bucati, niente maxi stirate, e niente lavori sporchi come tegami e padelle da lucidare. Massimo rispetto da tutti, nessuno più alzava la voce con me e l’andirivieni era tutto e solo in funzione della mia nuova identità: a zita ri Pippin. Che bei tempi!

  Ed ecco le lettere d’amore (si fa per dire) aperte e lette dai genitori prima che da me ( come se in quelle lettere potesse esserci il progetto per la fuga), ed ecco il corredo da ultimare, ed ecco

l’abito bianco, il matrimonio per procura, la chiesa e gli invitati. Ed ecco lo sposo inginocchiato accanto a me: mio padre.

  La festa fu più gioconda di quanto non sarebbe stata con la presenza dello sposo: ognuno cercava di colmarne il vuoto facendo tutto in più. Non si badò a spese e anzi dove fu possibile si calcò la mano senza scrupoli. I dollari americani facevano davvero un bell’effetto sull’umore di familiari, parenti, amici ed estranei, dando loro la spensieratezza di chi non sa da dove arrivano, da chi e come.

  Il giorno dopo mio padre scrisse a Giuseppe : “è stata una bella festa, come se tu fossi stato presente, né più né meno”. Era il mese di Dicembre del 1957.

  Io, dal giorno dopo, pensavo con insistenza a ciò che era venuto fuori nel culmine della festa.

  Una cugina di mia suocera confessò con orgoglio ciò che le avrebbe dato un momento di celebrità: “Questa festa e questo bel matrimonio è stato merito mio. Sono stata io a scrivere a Giuseppe per dirgli di chiedere la tua mano, e sono stata io a convincere mia cugina a sceglierti come nuora…”

  Sapete perché se l’era presa calda la nostra zietta per combinare il matrimonio? Perché un suo figlio, emigrato a Rochester, aveva sposato una figlia di italiani nata là, dopo solo qualche anno era stato lasciato e a questa disgrazia mia zia non trovava rassegnazione “se lo sapevo, a mio figlio lo facevo sposare con una di qua,  non con l’americana che me lo ha cunzumat, u figghj miu. Tu (si rivolgeva a mia madre) che ne vuoi fare di questa bella figlia, la vuoi rovinare? Meglio se la dai a uno che conosciamo, magari della famiglia, almeno sei sicura che non succedono cose storte”.

 

  Quattro mesi dopo, nell’aprile del 58, mio padre mi accompagna all’aeroporto di Palermo. Mi aiuta con gesti ostentati per nascondere l’imbarazzo che il triste distacco gli procura ed io sono come un automa: non riesco a pensare a cosa vado incontro. Come se il cervello si fosse messo a riposo dopo giorni e giorni di apprensione e sgomento, dopo il dolore di mia madre, il via vai di mezzo paese per salutarmi e dopo la fatica mentale nei tentativi di costruire,  senza alcun elemento,  il luogo e lo zio-marito che mi aspettavano. 

  Uscivo per la prima volta dai confini di Valguarnera e lo stavo facevo alla grande, si direbbe oggi.   Allora sapevo che non potevo fare altro, ma proprio niente altro, che lasciarmi trascinare dagli eventi.

  Frastornata ma giudiziosa, per rassicurare mio padre, rispondevo “sì, sì, non ti preoccupare” , ad ogni sua raccomandazione e incoraggiamento.

  La curiosità dell’aeroporto, l’aereo, le hostess, i viaggiatori vestiti bene, la loro disinvoltura, mi intimidivano e fortunatamente mi distraevano: li guardavo con gli occhi della prima volta e seguivo ogni loro movimento. Cosa c’era di là del viaggio ora lo scoprirò senza alzare un dito, mi dicevo e mi dicevo anche, “domani a quest’ora sarò in Canada”. Ecco, quello era il solo pensiero, ora ricordo, capace di far muovere qualcosa che sconvolgeva, ma in maniera violenta, a bucca di l’arma.

 Grazie a Dio, presa com’ero da un presente incombente, a tale pensiero non ci tornavo spesso.

 

  Primo scalo a Roma. Devo andare all’ambasciata per ritirare il foglio di via. Con le informazioni giuste la cosa è più facile di quanto avessi pensato. Un pulmino era lì apposta.

  Sosta di un paio d’ore. Mi siedo su una panchina e vi appoggio il documento aperto custodito dentro ad un foglio di giornale.  Mi accingo a prendere il pane e formaggio che mia madre mi aveva dato e proprio in quell’istante il foglio, ghermito da un colpo di vento, se ne va come un’immensa farfalla felice e svolazzante verso l’infinito. Poi cade a terra, lo rincorro e quello fugge come una lepre impazzita davanti al cacciatore. Inebetita mi fermo e lo seguo allontanarsi con gli occhi e la bocca spalancati. Ed è panico.

  Il mondo intorno a me si appanna e comincio a tremare. Tremano le gambe, e il mio fiato si è ridotto di parecchio divenendo veloce ed affannato. Sento brividi dappertutto mentre mi domando “e ora cuwm fazz?”

  Chiedo dove posso trovare l’agenzia che mi aveva organizzato il viaggio, di cui ricordavo bene il nome, e mi danno delle indicazioni che non riesco a capire (o sono loro che non capiscono me).

  La paura diventa terrore e il mio cuore batte, per la prima volta nella testa , nella gola e soprattutto nello stomaco, mentre cammino svelta verso non so dove. Ed è con questo stato d’animo che mi appare  il miracolo: davanti  l’ingresso di una villa c’è una nicchia con bellissimi stucchi decorativi.   Dentro c’è un Santo. Sì, avete capito. Era S. Giuseppe. Non avevo dubbi, era il cenno di Dio per venirmi incontro: “San Gius’ppuzz, aiutami, famm sta grazia e iu t fazzu a tavula, macari ch vai dumann a limuws’na.”

  C’è un vigile che fa i “segni” alle poche, ma per me troppe, macchine, chiedo dove si trova quell’agenzia e lui risponde “Eccola là”. Era a pochi passi. Con molta comprensione l’agenzia mi da un lasciapassare ed io, con le corde finalmente allentate, ritorno sui miei passi e vado verso il mio destino. Una stanchezza pesante mi avvolge ed è bene accetta: ormai seduta sull’aereo, non chiedo altro che chiudere gli occhi, riprendere fiato per riportare il respiro al suo giusto ritmo e concedermi finalmente il lusso di piangere.

 Non occorre dire che dal primo giorno del mio arrivo in Canada un pensiero mi tenne compagnia:

mettere da parte i soldi da mandare a mia madre per mantenere la promessa fatta al mio Santo.

 

  Secondo scalo, Parigi, dove mi guardai bene dall’allontanarmi dalla sala d’aspetto, infischiandomene di tutto il movimento e le meraviglie che mi circondavano. Ma anche qua fui coinvolta in una situazione parallela per la quale ringraziai la sorte, o S. Giuseppe, fate voi.

 Assorta nei miei immaginabili pensieri, vidi una ragazza giovane e impacciata che si guardava intorno come se cercasse qualcuno. Mi guarda, poi si volta, poi mi guarda ancora e mi si avvicina.

 Parlando italiano con forte accento francese mi chiede: “Dove va lei?”-“In Canada”- rispondo. “Anch’io”- dice lei. Ed è il sollievo, la compagna, l’amica per tutta la durata del volo: dodici ore.

 Si era sposata per procura anche lei, e anche lei andava dal marito che aveva conosciuto durante le vacanze nel sud Italia.

  Ci sediamo vicino e ci teniamo per mano come due sorelle. L’una era l’esempio, il sostegno, la confidente dell’altra. Di tanto in tanto ci lasciavamo andare a piangere, specialmente quando raccontavamo il distacco dagli affetti lasciati per sempre.

  Lei sarebbe scesa a “Torontò” dopo il mio scalo. Pur promettendoci di cercarci in futuro, per darci le reciproche notizie, nessuna delle due lo fece mai. Oggi me ne rammarico.

 

  Quel giovedì a Montreal, come sapevo, c’era mio marito. Abbracciai la mia compagna di ventura che doveva riprendere il viaggio, e mi avviai verso la mia nuova vita. Nuova che più nuova non si può.

  Giuseppe era trasformato, irriconoscibile. Sembrava più alto perché molto più magro, aveva poco colorito rispetto a quando era in paese, indossava pantaloni blu, un dolce vita bianco e un giubbotto di pelle nera. Pur commosso, con gli occhi arrossati e lucidi da sembrare febbricitanti, non aveva perduto la sua padronanza e la sua spavalderia: mi sembrò bellissimo.

  Quando, superato un disagio indicibile, mi abbracciò, sentivo che tremava.

Io indossavo abito e soprabito tre quarti grigio con scarpe e borsa da sposina. Un po’ impacciata in quegli abiti eleganti e con l’aria sperduta, ricambiai l’abbraccio con ritrosia. Mi vergognavo da morire.

  Mio marito era in compagnia di un amico che si era prestato con la macchina di venirmi a prendere.

  Faceva un freddo cane ed ero intirizzita. Giuseppe mi teneva la mano gelata e la stringeva.

Dopo essere entrati in auto (sul sedile posteriore) mi passò il braccio attorno le spalle ma non fece alcuna manovra di approccio, ed io per questo gli ero grata.

Ciò che tentavo confusamente di vedere dal finestrino (case, strade, persone e quant’altro), non mi fecero una bella impressione: né subito, né dopo.

  Fortunatamente la casa mi sembrò una reggia: camera da letto, cucina completa di accessori, stoviglie e servizi di piatti, bicchieri e posate , salotto beige e biancheria al posto giusto: una vera casa da sposini. Mio marito l’aveva affittata apposta per me.

  Giuseppe-Joe pose le valige a terra, mi aiutò a togliermi il soprabito e poi mi prese tra le braccia.     Non disse niente, mi guardò e mi baciò come un marito. Io, subito mi irrigidii (la mamma mi aveva detto e non detto) ma dopo, inevitabilmente, chiusi gli occhi e la stanchezza, con molta discrezione si allontanò temporaneamente, per ritornare  a sopraffarmi nei giorni successivi. Per forza di cose”