IL SENSALE

Una enorme collina dorata mi aspettava… io, correndo, mi ci tuffavo dentro facendola sgretolare. Non è un sogno, ma il gioco di un bimba che contravvenendo ai mille divieti materni, si beava con un enorme mucchio di grano, depositato in magazzino, dopo la raccolta.

Mio padre, costretto ad ammucchiare i chicchi, mi rimproverava dolcemente, comprendendo la gioia che mi dava quel tuffo. “Meno male che fra qualche giorno viene il sensale”, mormorava fra sé e sé.

Quando arrivava il gran giorno della vendita del grano, c’era un senso di attesa fin dal mattino presto… significava il coronamento di un anno intero di fatiche nei campi: arati con il millenario strumento trainato dai cavalli, seminati a mano, spargendo i chicchi solco, dopo solco, mietuto con la falce, ed infine, trebbiato e pulito nell’aia dove, pazientemente, si aspettava “il vento giusto” che permetteva di separare il grano dalla pula.

Il signor Di Vita, il commerciante di grano, si annunciava con due tocchi al battente del portone; accolto da mio padre che precipitosamente scendeva le scale… e da me, che amavo osservare questi ciclici “rituali”.

Il suo viso rubicondo, la sua figura massiccia contrastava con quella dei due operai che lo accompagnavano: al confronto mi sembravano pallidi e gracili. Precedeva tutti con il suo passo lungo e sicuro, fermandosi ad aspettare davanti la porta del magazzino.

La mano possente di mio padre infilava nel chiavistello a forma di cuore, una enorme chiave che girava e girava con uno sferragliare sordo, fino ad aprire l’enorme porta di quello che, a me piccina, sembrava uno scrigno di tesori. Si entrava; la collina di grano si era trasformata in panciuti sacchi stracolmi, messi in fila come soldati in attesa di ordini… ed incominciava la “pesata”. La stadera, enorme, lucida, dorata, con il suo romano, le sue tacche, retta a spalla dai due, come cariatidi sotto un architrave, era per me uno strumento incomprensibile.

Il signor Di Vita, con serafica calma, si avvicinava a quell’asta luccicante, faceva scorrere il romano lungo le tacche fino a stabilire il peso di ciascun sacco, per annotarli poi, su un taccuino.

Trasportati i sacchi colmi, restava il vuoto: solo l’odore pungente di cipolle appese, di vino conservato nell’enorme botte, di mele, fichidindia, ed altri frutti che impregnava da sempre quel luogo, per me, magico.

Era il momento di fare i conti… banconote, enormi come lenzuola, uscivano dal portafogli del signor Di Vita e si depositavano su una vecchia scrivania. Mio padre le contava di nuovo, lentamente, facendole frusciare fra le dita, pensando che quella somma doveva “durare”, come diceva lui, trecentosessantacinque giorni.